Lo so. Non è un gran titolo per un post sul sito di una associazione che si propone di “portare l’innovazione nell’agenda della politica italiana”. Però forse è anche il caso di cominciare a comunicare in maniera un po’ diversa dal solito. Propongo a tutti noi che lavoriamo in questo settore di fare una cosa innovativa: un po’ di autocritica. Seguitemi per un minuto mentre vi racconto una breve storia.
Ieri pomeriggio dovevo espletare una sgradevole incombenza: pagare una multa per divieto di sosta. Ammetto il crimine. Mi tocca pagare. Sul retro dell’accertamento vengo doviziosamente informato che posso attraversare tutta Roma per andare a pagare presso un ufficio comunale in orari impossibili per chi lavora. Oppure posso pagare alle Poste. Ma anche lì mi aspetterebbero un paio d’ore di fila. Vuoi che la mia “smart city” non mi offra un modo intelligente di pagare on-line?
Vado sul sito del Comune di Roma e dopo 10 minuti di ricerche non ho trovato nulla. Scemo me. Ormai dovrei sapere che i siti delle PA sono studiati scientificamente per non farti trovare quello che cerchi. Vado su Google. Boom! Cinque secondi e trovo il sistema di gestione pagamenti del Comune di Roma. In effetti, mi ricordo che era una innovazione annunciata con molta enfasi qualche anno fa. Fantastico: se hai un account attivo con l’Agenzia delle Entrate puoi accedere subito! Dopo una successione di sei tediose schermate di informative inutili il mio entusiasmo svanisce all’improvviso, quando nella pagina che finalmente dovrebbe farmi procedere all’autenticazione leggo: “Il servizio è momentaneamente sospeso”. Impreco tra me e me. Non me lo potevano scrivere sei schermate fa?
Pazienza. Vorrà dire che è la volta che apro un account alle Poste per usare i loro innovativi servizi on-line: pubblicizzano che si può pagare con la carta di credito ed è quello che mi serve. Dieci minuti e sono registrato. Però poi per accedere ai servizi dispositivi devo ri-autenticarmi e mi segnala un errore. Perdo altri dieci minuti a verificare di aver scritto correttamente username e password. Poi l’illuminazione: proviamo con Chrome al posto di Safari. Funziona. Evidentemente alle Poste non hanno risorse da investire per testare la compatibilità dei loro servizi con tutti i maggiori browser. E poi perché una autenticazione funziona e l’altra no? Bah. Paghiamo e non facciamoci troppe domande. Si, troppo facile! Arrivato al dunque scopro che si può pagare con la carta di credito, ma non i bollettini bianchi. Quelli rossi si, quelli bianchi no. Misteri.
A questo punto ho buttato via già più di tre quarti d’ora. Potevo essere a metà della fila alla Posta. Persevero per puntiglio. Scopro che un servizio innovativo di Lottomatica consente di pagare le multe dal tabaccaio, ma solo in contanti. Beh, meglio di niente, almeno non c’è fila. Mi vesto e vado. “Mi spiace ma le multe accertate con un modulo TPL non si possono pagare qui. Solo quelle con i foglietti che hanno sopra il codice a barre. Non è colpa nostra se il Comune ha modi diversi di elevare le contravvenzioni”. Altra mezz’ora buttata. Decido di non sprecare tempo ad andare a provare l’innovativo servizio che consente di pagare le multe agli sportelli Bancomat del Monte dei Paschi. Probabilmente scoprirei che è obbligatorio indossare mocassini e io ho solo scarpe con i lacci.
Stamattina sono in fila da più di un’ora alle Poste e mi aspetta almeno altrettanto. Però posso usare il mio iPad per scrivere questo post ed evitare di buttare del tutto queste due ore della mia vita. Ah, le bellezze dell’innovazione che funziona!
Ogni favola ha la sua morale.
Per cominciare, l’innovazione tipicamente autoreferenziale delle strutture pubbliche non migliora la vita del cittadino. La peggiora semmai introducendo ulteriore frammentazione delle procedure. È una semplice meccanizzazione della follia.
Ma non sarebbe così grave: basterebbe ignorarla. Però, se la percezione della persona della strada è che l’innovazione nella PA gli peggiora la vita, allora in un momento in cui ha bisogno di costruire consenso intorno a misure dolorosissime e impopolari, un governo non può certo basare la propria comunicazione sui vantaggi chimerici di una innovazione indifferente alle necessità del cittadino.
Se al mondo esiste una “broken user experience” da sistemare è certamente quella offerta ai cittadini dalla PA italiana. Allora, se vogliamo incidere come innovatori, se vogliamo che la politica percepisca un possibile ritorno di consensi dagli investimenti in innovazione e la alzi nelle priorità di governo, forse è il caso di cominciare a ragionare in termini di esigenze primarie dei cittadini da risolvere e non solo di tecnologie o metodologie o principi ideali. Finché la scelta sarà tra spendere per tenere aperto un Pronto Soccorso in più e la digitalizzazione georeferenziata cromatica trasversale degli archivi delle PA residenti ai numeri civici dispari di città aventi codice catastale pari, l’opinione pubblica non avrà un secondo di dubbio. E la politica si nutre del consenso dell’opinione pubblica.
Quali sono secondo voi i dieci problemi quotidiani prioritari della gente per risolvere i quali la PA dovrebbe investire in innovazione?
Io ho ancora un paio d’ore per pensarci mentre aspetto inutilmente in fila per pagare una multa…
Condivido in pieno quanto scritto da Paolo ed aggiungo una cosnsiderazioe: se uno esperto di rete, blog, post e quant’altro decide di fare la fila “manuale” come è possibile spingere la gente normale ad usare la rete?
Allora forse è giunto il momento di cambiare il pardigma di valutazione.
Se una funzione di rete non assorbe entro tre mesi almeno il 10% della corrispondente funzione “manuale” allora è sufficiente, come si diceva una volta, ….mandare il responsabile all’ufficio aperto in Barbagia e ricominciare da capo. Le giro di un paio di mesi o la sede barbagina diventa una media cittadina o qualcuno comoncerà a ragionare con il cervello e non con il craniobreocraticus complex.
Fuor di metafora, forse è giusto cominciare a sistemare quello che c’è e per far questo usare manovali e giovani cervelli oppure far finta di aver scherzato e rivendere, oltre che i beni immobili dello stato non utilizzati, gli olte 100.000 mila pezzi di hw che ci sono nella PA.
Buon Natale a tutti!
Se posso… mentre condivido in pieno quanto detto da Paolo “non solo di tecnologie o metodologie o principi ideali”, non condivido che il Governo Monti non debba parlare di innovazione (altrimenti continuiamo a fare il solito errore di considerare innovatitva solo la tecnologia) 🙂
Beh si… in effetti il mio post si incentrava sulla innovazione informatica e quindi lasciamolo parlare di innovazione in senso lato questo governo 🙂
O forse no. Sia chiaro: che un governo finalmente prenda in mano il tema dell’innovazione sarebbe assolutamente auspicabile. E in confronto al nulla degli ultimi dieci anni qualunque briciola sembrerebbe un lauto pasto. Però, io ho sempre un tarlo che mi assilla: mettere mano seriamente all’innovazione di questo paese vuol dire fare scelte politiche molto molto importanti e di ampio respiro. Se è vero che purtroppo abbiamo una classe politica che ha ampiamente dimostrato di non essere capace di questo tipo di ragionamenti, non si può neanche delegare queste scelte ad un gruppo di “saggi” privi di qualunque rappresentatività popolare. Non è così che funziona la democrazia. Ricorrere al dictator per evitare il disastro è semplice buon senso, ma la strategia politica di ampio respiro deve appartenere ad un’altra dimensione. Il prerequisito per parlare seriamente di innovazione è innanzi tutto poter operare una scelta politica sulla direzione che questo paese deve prendere non oggi o domani, ma nei prossimi trent’anni. Siamo in uno di quei momenti storici nei quali si verificano rivoluzioni epocali. Che significato vogliamo dare all’essere italiani nella nuova società globalizzata che si sta costruendo sotto i nostri occhi? Cosa dovrà essere l’Italia? Vogliamo tornare una potenza dell’industria pesante? Vogliamo diventare un parco giochi per turisti? Vogliamo diventare un think-tank? Cosa vogliamo far diventare l’Italia?
Sulla base della risposta a questa domanda allora poi si può cercare di indirizzare l’innovazione, facendo scelte strategiche. E questo non è un filosofeggiare: la prima cosa che si scrive in un business plan di una qualsiasi impresa è a sua missione a lungo termine. Poi la visione a medio termine. Quindi segue tutto il resto.
Io il grande fallimento della politica italiana contemporanea lo sento soprattutto nella totale mancanza di capacità di definire una missione-paese. O più legittime missioni-paese su cui confrontarsi. Questo tipo di passaggi non lo si può chiedere ad un governo d’emergenza. Poi che il pragmatismo imponga di cercare di fare il massimo con quel che si ha per le mani è un altro paio di maniche e non mi sono mai tirato indietro su questo. Ma non si incide sulla storia in questo modo. Al massimo si entra nella cronaca.
Paolo,
innanzitutto un abbraccio. Meno male che sei con noi in questa avventura degli Stati Generali dell’Innovazione. 🙂
Basterebbe far leggere questo tuo contributo, e tutti i ragionamenti che abbiamo fatto in questi mesi sarebbero chiari e accessibili a tutti.
E basterebbe che qualcuno di quelli che dovrebbe governare (in senso buono) l’innovazione nel nostro Paese lo leggesse per capire che non vogliamo l’impossibile, ma la normalità ottenibile con nient’altro che il buon senso.
L’attuale Governo è composto da persone per bene. Pensa, non ci sono collusi con la mafia, persone inseguite da mandati di cattura, cialtroni e cialtrone (almeno in questo riusciamo a essere paritari). Certo, nel Governo Monti registriamo qualche conflitto di interessi, e qualche esponente di troppo di una classe sociale elitaria che vive al di fuori del nostro mondo e che quindi fatica un po’ a capire i nostri affanni (le multe gliele paga uno dei segretari personali o qualche studente/assistente, e chissene se fa la fila). Ma le multe le paga, e quindi siamo già a un bel passo avanti.
Abbiamo un anno di tempo. Poi torneranno i D’Alema, gli Alfano, ecc. Dobbiamo riuscire a farci sentire.
Ad esempio per chiedere che chi offre un servizio pubblico in concessione, come le Poste, e che grazie a questo guadagna milioni di euro, deve realizzare dei sistemi informatici conformi agli standard tecnici. Bastano 2 righe HTML scritte bene, anzi scritte in modo normale (l’HTML fra l’altro è un linguaggio facile), e il sito delle Poste funziona anche con Safari.
Ci riusciremo?
Marco,
che la composizione di questo governo sia infinitamente migliore di quella del precedente non ci piove. E vale la pena di fare qualche tentativo per introdurre un po’ di innovazione con la “i” minuscola, quella dell’ordinaria amministrazione che però applicando appunto – come dici tu – un po’ di buon senso può fare miracoli.
Le otto proposte elaborate da SGI sono un buon viatico da questo punto di vista: sono tutte piccole cose che possiamo contribuire a realizzare. La grossa innovazione sarebbe farle funzionare davvero.
Per l’Innovazione con la “I” maiuscola non sono convinto che riuscire a farci sentire dal governo Monti servirebbe realmente. Non ha molto tempo a disposizione e non ha una reale forza se non quella della disperazione. I voti in Parlamento glieli danno quegli stessi partiti che non hanno saputo o voluto fare nulla in questo settore negli ultimi dieci anni. E’ chiaro che il loro calcolo è di “passare la festa e gabbare lo santo” attraverso il governo Monti per poi tornare al “business as usual” una volta che i provvedimenti impopolari saranno stati fatti passare e saremo tornati in condizione di sperperare un po’ come paese. La scommessa, secondo me, è quella di contribuire a creare una coscienza diffusa che possa imporre attenzione ad alcuni temi cruciali fra un anno. Il tempo è poco, pochissimo e nessun individuo, associazione o organizzazione è in grado di ottenere questo risultato. Però, forse, se riuscissimo ad accendere l’intelligenza collettiva degli innovatori italiani, allora la speranza di inventare una soluzione ci potrebbe essere.
Già il fatto che si avviino discussioni di questo tipo è un buon inizio.
Sono convinta che prima dell’innovazione tecnologica (che rappresenta un mezzo) il nostro paese debba innovarsi culturalmente: finchè gli Italiani non si sentiranno consapelvolmente Cittadini, consci di diritti e doveri di un buon cittadino, non ci sarà innovazione tecnologica in grado di cambiare le cose.
Tornando al caso del pagamento delle multe: a mio avviso il problema non è tanto l’impossibilità di disporre di efficaci servizi telematci (a cui non tuti potrebbero comunque accedere), ma il dover fare file di ore agli sportelli e ritenere che ciò sia ineluttabile.
Hai ragione, non è ineluttabile. Se i servizi innovativi come i pagamenti online funzionassero, ci sarebbe meno gente in fila. Un vantaggio anche per chi non li sa usare.
Comunque l’innovazione tecnologica conta. Il grado culturale di un popolo cresce lentamente, ci vogliono decenni se non secoli. Io le file le voglio evitare oggi, non fra duecento anni. E la tecnologia può cancellare un’inefficienza come questa in pochi istanti.
P.S. A proposito di analfabetismo tecnologico. Il fatto che riguardi gli adulti, e che tocchi anche chi è laureato non lo rende meno “analfabetismo”. Basta indulgenza con i cinquantenni laureati che non sanno compilare un form online. Sono analfabeti; si vergognino un po’, così magari riaccendono il cervello e studiano. Il prossimo che si vanta di non saper inviare un SMS o che fa stampare le email alla sua segretaria si prenderà il mio sguardo più sprezzante. 🙂
Vittoria,
anche io ti rispondo sulla falsariga di Marco. Sono d’accordo che il cambiamento culturale sia l’elemento fondamentale, però si propaga per onde lente. E ha bisogno di stimoli continui. La tecnologia, se ben usata, può essere uno di questi stimoli. Poi servirebbe tanta tanta comunicazione per motivare le persone ad abbracciare il cambiamento. Restando confinati all’ambito dell’innovazione tecnologica, ti porto un esempio. Mio padre (74 anni) non c’è verso che accetti di fare un pagamento o gestire una pratica on-line. Gli ho spiegato 500 volte come farlo, ma “lo dimentica perché è troppo complicato”. Quando la nipotina – all’epoca di 3 anni – ha seguito ovviamente mio fratello negli USA per qualche tempo, mio padre ci ha messo 12 secondi netti ad imparare ad usare Skype pur di vederla. E quello non lo dimentica.
Si tratterebbe di attuare politiche di comunicazione e di incentivazione in questa direzione. E nel caso delle file i servizi on-line aiutano eccome. Oppure pensiamo alla situazione opposta: quanti piccoli comuni di montagna sono stati privati dell’ufficio postale perché i costi non sono sostenibili? Visto che è un servizio pubblico in concessione e tutti dovrebbero beneficiarne, perché non consentire la chiusura di un ufficio solo in cambio di incentivazioni reali all’uso dei servizi on-line? Risparmi chiudendo l’ufficio, ma investi per garantire una decente connettività in banda larga nel comune che abbandoni. E condizioni privilegiate a chi accede ai tuoi servizi. Probabilmente non risolve il problema del montanaro ottantenne, ma magari aiuta il giovane a non scappare da un territorio in corso di desertificazione di servizi. Quest’ultima costa carissima: le “imprevedibili” alluvioni che devastano sempre più frequentemente le nostre città sono direttamente connesse alla desertificazione dei servizi in montagna. Ma sto divagando…
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Paolo, il tema che poni mi sembra quello dell’innovazione autoreferente, che non parte dalle esigenze di chi dovrebbe beneficiarne. In altri termini, l’innovazione inutile.
L’approccio che cerchiamo di portare avanti è del tutto opposto, partendo dalle esigenze, quantificando i benefici. E gli ostacoli, su questo percorso, condivido quanto scrive Vittoria, sono soprattutto culturali. Ma non culturali solo nel senso di “comprensione” ma anche di attenzione al breve termine, al guadagno e alla “fama” immediata.
Anche per questo credo abbia un carattere rivoluzionario pensare ad un piano strategico sull’innovazione che parta dalle esigenze dei cittadini e che punti al miglioramento della qualità della vita.
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Paolo, il tuo e’ un post fantastico! Condivido in pieno. La mia esperienza nei progetti di e-government nazionali e poi locali mi ha insegnato che per i nostri Amministratori pubblici l’innovazione è solo una “scocciatura necessaria”: a 10 anni dall’esplosione di Internet come fenomeno di massa, loro hanno capito solo che per essere un politico a-la-page devi sì fare qualcosa in termini di innovazione, dematerializzazione e servizi on-line, ma non ci credono veramente. E allora, se la cavano dando due indicazioni in croce di attivare “qualcosa su Internet” a burocrati che non sanno cosa sia la correlazione tra risorse e risultati, che non masticano di project-management, che non si pongono minimamente il problema che ogni progetto deve soddisfare i suoi utenti designati, nei tempi e nelle modalità che *gli utenti stessi si aspettano*. Nel frattempo i politici di cui sopra si disinteressano completamente dei risultati (eventualmente…) ottenuti, della qualità del lavoro svolto, dei benefici effettivi che le iniziative che hanno cantierato sono state in grado di portare. Loro se la cavano con una conferenza di presentazione, un comunicato stampa dai toni trionfalistici, et-voilà l’innovazione pubblica italiana è servita. Peccato che poi spessissimo non produca nessuna ricaduta sulla vita quotidiana dei cittadini, del paese reale. In Italia abbiamo manager dell’innovazione pubblica di valore, e la stessa Flavia Marzano che leggo sopra ne è un chiaro esempio, ma sono una minoranza sparutissima. E allora l’unica soluzione – quella che io cerco di praticare quotidianamente tra mille difficoltà e frustrazioni – è quella di dedicare molto tempo a spiegare la tecnologia e le sue applicazioni concrete agli Amministratori, a coinvolgerli, a far loro capire che con un’innovazione vera si risparmiano soldi e si offrono più servizi, che l’innovazione vera è quella che loro stessi possono vedere, toccare, usare nella loro vita di ogni giorno, quando ridiventano semplici cittadini che grazie ad essa risparmiano tempo e denaro. E soprattutto che se non fa queste cose, non è vera innovazione.
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