(Vi sarete accorti senz’altro – ma lo sottolineo ugualmente per chiarezza e correttezza – che nel titolo di questo contributo è recuperata indegnamente, e forzandola – anche se sulla dipendenza della cultura dalla politica c’è da dire molto… – la categoria di “riproducibilità tecnica” proposta da un grande classico, Walter Benjamin)
“La società interconnessa è una società ipercomplessa, in cui il trattamento e l’elaborazione delle informazioni e della conoscenza sono ormai divenute le risorse principali; un tipo di società in cui alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione e di trasmissione delle informazioni, che costituiscono dei fattori fondamentali di sviluppo economico e sociale, non corrisponde ancora un analogo aumento delle opportunità di comunicazione, da noi intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza che implica pariteticità e reciprocità (inclusione) …(Dominici,1996)
La tecnologia, i social networks e, più in generale, la rivoluzione digitale, pur avendo determinato un cambio di paradigma, creando le condizioni strutturali per l’interdipendenza (e l’efficienza) dei sistemi e delle organizzazioni e intensificando i flussi immateriali tra gli attori sociali, non sono tuttora in grado di garantire che le reti di interazione create generino relazioni, fino in fondo, comunicative, basate cioè su rapporti simmetrici e di reale condivisione. In altre parole, la Rete crea un nuovo ecosistema della comunicazione) ma, pur ridefinendo lo spazio del sapere, non può garantire, in sé e per sé, orizzontalità o relazioni più simmetriche. La differenza, ancora una volta, è nelle persone e negli utilizzi che si fanno della tecnologia, al di là dei tanti interessi in gioco.”
(cfr. P.Dominici, Dentro la Società Interconnessa.Prospettive etiche per un nuovo ecosistema della comunicazione, FrancoAngeli, Milano 2014)
Una premessa. Intendiamo la comunicazione come processo sociale di condivisione della conoscenza (potere), in cui sono coinvolti “attori” sociali, persone in carne e ossa che, in virtù delle competenze possedute, del profilo psicologico, del sistema di relazioni e delle caratteristiche dell’ambiente etc., possono definire relazioni più o meno simmetriche tra di loro (potere – asimmetrie informative e conoscitive etc.). Considerando fondata l’equazione conoscenza = potere, ne consegue che tutti i processi, le dinamiche e gli strumenti finalizzati alla condivisione della conoscenza non potranno che determinare una condivisione del potere o, comunque, una riconfigurazione dei sistemi di potere e delle gerarchie all’interno delle organizzazioni (nel lungo periodo). In questa prospettiva, come ribadito più volte, il nuovo ecosistema sociale e comunicativo (1996) apre interessanti prospettive a processi di democratizzazione del sapere ed è destinato ad accrescere le possibilità di accesso alle informazioni e di elaborazione della conoscenza; ma, affinché ciò avvenga, è necessario che si facciano seriamente i conti non tanto con il “digital divide” (che, con ogni probabilità, sarà risolto nel tempo) – questione evidentemente importante – quanto con il “cultural divide”(Dominici, 1998 e sgg.): si tratta di un discorso di vitale importanza – e non solo per la governance di Internet e del nuovo ecosistema…abbiamo parlato più volte di “ripensamento della cittadinanza” e di “nuovo contratto sociale” (Dominici) – che riguarda da vicino la scuola e l’istruzione e, più in generale, una riforma complessiva del pensiero e (nello specifico) dell’insegnamento (non ci stancheremo mai di ribadirlo). Oggi tutt* (apparentemente) sostengono tali posizioni, ma se analizzate le azioni correttive e le strategie definite, vi accorgerete che si tratta di “etichette” o keywords che devono essere inserite nei documenti per altri motivi. I giovani, che transitano dalla scuola all’università, oltre a non essere in alcuni casi neanche curiosi, hanno molto spesso difficoltà legate alla mancanza della logica (fondamentale) e di un metodo di analisi, di ragionamento, perfino di studio che li metta in condizione di fare connessioni tra i piani di analisi e discorso, di individuare possibili spiegazioni ai problemi, di essere critici nell’affrontare/interpretare una realtà assolutamente complessa. Mentre, al contrario, si rivelano estremamente abili nell’utilizzo delle nuove tecnologie della comunicazione, nel navigare e nell’utilizzo (in certi utilizzi) dei social networks. Ma la ridefinizione della cittadinanza (e la qualità della democrazia) richiede con urgenza cittadini consapevoli e responsabili, in grado di valutare e monitorare… sintetizzandolo con uno slogan a noi caro…Non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati alla cittadinanza (e non alla sudditanza…per abitudine culturale) in possesso di competenze non soltanto tecniche e/o digitali (in tal senso, adesso anche qualche tecno-entusiasta, etichetta per indicare i moderni “integrati”, inizia finalmente ad affermare che il problema è culturale, non tanto di infrastrutture…). Ricordando Montaigne, abbiamo un disperato bisogno di “TESTE BEN FATTE”.
L’uscita dalla “torre d’avorio”: rischi e opportunità. Allo stesso tempo, quasi a voler ribadire ancora una volta il carattere ambiguo e l’ambivalenza del complesso mutamento in atto – che, come ogni processo sociale e culturale, contiene i famosi “germi della sua contraddizione”- non possiamo non rilevare come, parallelamente alla definizione ed al sorgere di queste nuove opportunità di accesso alle informazioni e di elaborazione della conoscenza (per ora riservate quasi esclusivamente a élite e gruppi d’interesse ristretti), proprio quelle stesse caratteristiche e dinamiche che rendono la società interconnessa un’opportunità e che fanno apparire le architetture del nuovo ecosistema “aperte” (ma le reti che lo costituiscono sono “chiuse”, da sempre…provate a diffondere contenuti in gruppi che non vi “riconoscono” — riconoscimento – identità), pongono alla nostra attenzione una serie di questioni problematiche che riguardano da vicino, non solo la veridicità, l’attendibilità e la qualità delle informazioni e delle conoscenze disponibili on line, ma anche, e soprattutto, quella che potremmo definire la “reputazione” dei saperi e dello stesso sapere scientifico (questione complessa che svilupperemo ulteriormente). In altre parole, la progressiva uscita dalla cd. “torre d’avorio” di saperi e conoscenze – da registrare senz’altro come un fatto positivo, che va in direzione dei presupposti fondativi della società della conoscenza – presenta anche dei risvolti critici e contraddittori che concernono, in primo luogo, proprio la condizione del sapere scientifico – e delle relative “narrazioni” – ma anche dei saperi riconducibili all’area umanistica (manteniamo tale distinzione solo per comodità…non mi ha mai convinto fino in fondo), talvolta eccessivamente banalizzati, semplificati ed erroneamente divulgati in nome di un principio assolutamente condivisibile (democratizzazione della conoscenza), ma anche di logiche di mercato che, non da oggi riguardano e colpiscono anche il complesso e variegato mondo della formazione e, più in generale, quello della produzione di idee e conoscenza. Quindi se, da una parte, assistiamo all’allargamento della base e delle opportunità di attraversare l’universo delle informazioni, i territori del sapere ed esplorare le molteplici province di significato – processi di condivisione e inclusione…cultural divide permettendo (Dominici 1998) – dall’altra, non possiamo non registrare un livellamento verso il basso della qualità della divulgazione e la definizione di strategie narrative sempre più finalizzate a banalizzare e semplificare le questioni e le problematiche affrontate. Con un approccio soprattutto descrittivo dei fenomeni basato su una lettura di dati e trend che, talvolta, si rivela abbastanza superficiale e senza il necessario richiamo ad un’analisi critica e, ancor di più, ad uno sguardo più complessivo e globale sul mutamento in atto. Inevitabilmente, tali dinamiche caratterizzano e riguardano sempre più da vicino anche l’università – come ribadito più volte, sistema “chiuso” e sempre meno luogo di progettazione/elaborazione del cambiamento – segnata da una progressiva parcellizzazione/frammentazione dei saperi e delle competenze in atto da molto tempo, che nulla ha a che fare con la specializzazione richiesta dalle nuove professioni e che, fatto ancor più negativo, non riguarda in alcun modo l’interesse per la maturazione intellettuale dei nostri giovani. Scuola e Università, tranne eccezioni e alcuni casi di eccellenza, non sembrano (non sono) in grado di preparare le nuove generazioni ad una complessità che, per essere compresa, chiede “contaminazione” delle conoscenze, interdisciplinarietà e prospettiva sistemica.
L’originalità dei contenuti. Per non parlare poi di “originalità” dei contenuti, sempre più frequentemente realizzati a partire da un attività assolutamente anche scorretta di “copia e incolla” che prevede la sistematica omissione delle fonti e dei riferimenti bibliografici realmente utilizzati (si cita soprattutto per convenienza, non solo politica) al fine di far apparire come proprie e originali le argomentazioni sviluppate. Il “gioco” spesso funziona per tanti motivi, anche quando chiama in causa i cosiddetti classici (ci sono studiosi, alcuni anche molto influenti e visibili, che riprendono, senza neanche rielaborare troppo, pensiero e categorie di intellettuali e scienziati che hanno fatto la storia dei diversi campi disciplinari. Sistema mediatico, giornali, Rete riprendono a loro volta, alimentano e diffondono contenuti anche interessanti e ben presentati, ma che ad un’attenta revisione non si rivelano originali e realmente innovativi (basterebbe almeno citare le fonti). Tutto ciò ha poco a che vedere con la “spirito” dell’età dell’informazione…altro che società della conoscenza…altro che “sapere condiviso” (2003) che, al contrario, costituisce il vero valore aggiunto del capitalismo culturale e della cosiddetta economia della condivisione (cambio di paradigma, trasformazione antropologica, nuove soggettività). Chiariamo, ancor una volta, come non si tratti di dinamiche sorte con l’avvento della Rete e/o dei social networks: il nuovo ecosistema comunicativo ha soltanto (si fa per dire) amplificato e radicalizzato qualcosa che era già presente nella società industriale. A ciò si aggiunga la mancanza di consapevolezza rispetto al fatto che la conoscenza è sempre il risultato di un processo sociale di acquisizione intersoggettiva, in cui ogni singolo Attore sociale non è mai “solo” e anche le sue intuizioni sono evidentemente condizionate, in un modo o nell’altro, dal sistema di orientamento valoriale, dal gruppo di appartenenza e dal contesto di riferimento. Tutti i testi, in conclusione, sono ipertesti anche quando li si vuol far apparire come prodotti del singolo.
Popolarità on line e credibilità. Insomma, basta davvero poco perché i media, la Rete (le persone) e il nuovo ambiente comunicativo decretino originalità e importanza di testi e documenti (talvolta anche la loro veridicità e attendibilità), con dinamiche assolutamente analoghe a quelle della “vecchia” società di massa. Le giuste etichette, magari il giusto #hashtag, un po’ di sano e “vecchio” marketing…senza sapere, o facendo finta di non sapere, che su quei temi ci sono tanti studi e ricerche anche datate, condotte da studiosi che hanno lavorato, e lavorano, senza porsi il problema della popolarità on line. Quanti documenti, testi e dati senza alcun rigore metodologico (o di cui non si chiarisce in alcun modo la metodologia) presentati, tuttavia, molto bene – in maniera accattivante – e promossi come ricerche “scientifiche”, come “dati di fatto”(con dinamiche analoghe a quelle di certi sondaggi presentati anche questi come “l’opinione di/degli…”=> non a caso si parla sondaggiocrazia). Per non parlare del peso delle parole, delle “etichette”, degli slogan che assumono davvero un senso soltanto se originati da esperienze concrete sul campo (lavorativo e professionale, non solo scientifico…ci mancherebbe) e, soprattutto, da percorsi di studio e ricerca condotti negli anni. Altrimenti, tutto si riduce soltanto ad una “comunicazione del dire”, ad una questione di individuare la “parola magica”, quella più affascinante, alla moda e/o di costruire su questa la narrazione più convincente e persuasiva. Intendiamoci, questo aspetto non è un male in sé: le narrazioni sono importanti (non da ora…bensì fin dalle origini delle società umane, prima ancora del passaggio dall’oralità alla scrittura), a patto che ci sia della sostanza dietro (…bisognerebbe riprendere anche il discorso, più volte affrontato, sulla cultura della comunicazione ancora egemone in questo Paese). Soltanto per fare un esempio, si pensi all’uso del termine “Manifesto” (ma anche “Dichiarazione”, “Carta”, “Principi”,“Linee guida” etc.):una volta, questo tipo di termini indicava testi di grande importanza, destinati a lasciare il segno, le cui parole avevano un rilievo su teoria e prassi. Si pensi, inoltre, all’uso di formule retoriche rassicuranti, in grado di garantire sempre soluzioni a qualsiasi tipo di problema e mai nuove domande (sale della ricerca e della conoscenza).
Da questo punto di vista, c’è da riflettere, e molto, sulla condizione del SAPERE (dei saperi) nella società interconnessa perché, come scrissi già alla fine degli anni Novanta, gli effetti di “spirale del silenzio” – e di rafforzamento delle narrazioni egemoni, oltre che degli stereotipi – sono ancora quelli più evidenti. E, in tal senso, lo stesso concetto di “accesso” alla Rete andrebbe rivisto, dal momento che costituisce senz’altro qualcosa di più complesso e “qualitativo”. La Rete, le persone che la costituiscono e il loro sistema di relazioni (…lo consideravo scontato ma non è così…anzi trattasi di altra “idea” promossa come originale…) alimentano ancora le opinioni dominanti promosse soprattutto da chi è più visibile e popolare (la distinzione on line/offline è saltata). Anche la popolarità on line non è un male o un bene in sé …ma bisognerebbe verificare soltanto su quali basi è costruita. Troppi “esperti di tutto” in circolazione che contribuiscono ad accentuare i toni e la dimensione del “ritardo culturale italiano” (caratterizzato da tante dimensioni che proviamo, di volta in volta, ad evidenziare): una variabile complessa in grado, da sempre, di rallentare e ostacolare il mutamento sociale, politico ed economico di questo Paese. QUESTIONE CULTURALE: OGGI TUTTI NE PARLANO…purtroppo, MANCANO LE AZIONI, MANCA LA TRADUZIONE OPERATIVA DI PRINCIPI CHE, IN LINEA TEORICA, TUTT* PROFESSANO (anche se molti a scoppio ritardato): e soprattutto continuano a dominare logiche ed interessi che son ben lontani dall’interesse generale e, in molti casi, anche dalla sola idea di ETICA PUBBLICA.