#CitaregliAutori
Come sempre, senza “tempi di lettura”.
Un testo che riprende e sviluppa “vecchi” percorsi personali di ricerca (fin dal 1995). Al termine del contributo, è presente un epilogo che argomenta diversi punti di criticità, con la possibilità di approfondimenti ulteriori e riferimenti ad altri articoli e pubblicazioni. #CitaregliAutori
Alla fine, pur cercando sempre di non entrare nella scia degli argomenti-trends, sistematicamente alimentata da media e social, siamo stati praticamente “costretti” a parlarne da ripetute sollecitazioni e stimoli ricevuti. Tuttavia, cercherò di inquadrare le questioni in un discorso di senso più ampio, provando come sempre ad evidenziare correlazioni e livelli di connessione e cercando di non cadere negli slogans e/o nella banalizzazione delle questioni.
La mia opinione è che, sia per ciò che riguarda le cd. “bufale” (o il cd. fast checking) che la cd. “post verità” (sia chiaro: si tratta dell’ennesimo tema e concetto spacciato per originale, “nato oggi”), continuiamo a ragionare in una logica e in un quadro di riferimento teorico-pratico-applicativo che sono, sempre e soltanto, quelli dell’emergenza e del controllo totale (con riferimento all’informazione, infatti, si parla anche di censura…), con il conseguente coinvolgimento esclusivo dei soliti saperi e competenze; intendiamoci, si tratta di dimensioni strategiche importanti che vanno affrontate e approfondite che, tuttavia, mettendo comunque e sempre al centro dell’analisi, della gestione dei processi e dell’individuazione di possibili soluzioni (?) gli “strumenti”, i media e la loro “natura” tecnologica, le dimensioni giuridiche ed economiche, non tengono mai nella dovuta considerazione i “fattori sociali e culturali”, ambientali e di ecosistema, le caratteristiche e le dinamiche tipiche delle reti sociali, pre-esistenti alle reti digitali, al web ed agli stessi social. Variabili tipiche della complessità sociale, relazionale e comunicativa che vanno integrate in un approccio critico e sistemico a tale ipercomplessità. Variabili, processi e dinamiche che sono quelli, per esempio, dell’eterodirezione*, della ricerca di “prossimità culturale”, della socialità e del conformismo (non da oggi, dilagante), dell’appartenenza e del gruppo di riferimento.
*[Il concetto di eterodirezione è di David Riesman (1950), il quale la definisce come “atteggiamento attivo” in cerca della conformità di comportamento, attraverso una eccezionale sensibilità per le azioni e i desideri degli altri; tale atteggiamento riguarda attori sociali e soggettività che si rivelano poi incapaci di autonomia di giudizio e decisionale #CitaregliAutori
Il problema “vero” non sono le bufale o la post verità, ma le Persone, i Cittadini, il loro essere facilmente condizionabili…la loro eterodirezione e “predisposizione” – socialmente e culturalmente “costruita” attraverso l’educazione e i processi di socializzazione – al conformismo e/o alla “sudditanza per abitudine culturale”, come avrebbe detto Étienne de La Boétie.
Il problema è e continua ad essere lo stesso: si discute tanto, con sempre maggiore frequenza e insistenza e si pongono tutte le questioni, inerenti la rivoluzione digitale e la società della condivisione (1996), l’informazione e la condivisione/distribuzione delle informazioni e delle conoscenze, in termini di gestione dell’emergenza attraverso “strumenti” e “applicazioni” più o meno sofisticati e complessi (algoritmi, piattaforme etc.) – oltre che di leggi e codici deontologici, linee guida, manifesti – che devono orientare, guidare, indirizzare il lettore, l’ascoltatore, il telespettatore, l’internauta, il cittadino ma anche il giornalista e/o il comunicatore. Con un approccio che è a metà tra il determinismo tecnologico e il positivismo giuridico. Ebbene, al contrario di quanto discusso, attuato e praticato (tutte condizioni necessarie ma non sufficienti), bisognerebbe ripartire proprio da quei fattori considerati, al di là dei proclami e degli slogan, meno importanti e decisivi: dall’educazione e formazione critica della Persona anche nel suo ruolo di lettore, ascoltatore, telespettatore, navigatore, ma soprattutto di “cittadino” che non è soltanto “consumatore” (logica e strategia di lungo periodo). Sono trascorsi molti anni da quando ne abbiamo discusso la prima volta: ma, nel quadro di un ripensamento complessivo e radicale dell’educazione e dei processi educativi, l’urgenza più evidente continua ad essere quella di ribaltare la prospettiva dominante che vede, nei destinatari/referenti dei flussi informativi (conoscitivi), esclusivamente delle pedine da manovrare, quasi dei “burattini” da guidare, accompagnare, istruire (naturalmente “dall’alto”), persuadere, manipolare (sicuramente…a fin di bene!) verso una “buona e corretta informazione”. Si tratta di un approccio estremamente rischioso, perfino pericoloso, per tanti motivi che hanno a che vedere anche, e soprattutto, con alcuni diritti e libertà fondamentali e, di conseguenza, con la qualità della cittadinanza e della democrazia. Si tratta di un “approccio” che, con tutte le possibili sfumature e peculiarità delle relative discipline di riferimento, continua ad essere dall’alto verso il basso: più impegnativo lavorare sulla responsabilità e la formazione di chi informa e comunica, più impegnativo, e senz’altro meno visibile (soprattutto nel breve periodo, che è il tempo della politica e di una certa idea/visione del potere), lavorare sull’educazione e formazione delle “teste” dei destinatari e delle Persone: un’educazione al dubbio, all’incertezza, alla responsabilità, al pensiero critico, alla complessità, ad una nuova “cultura dell’errore”; un’educazione sviluppata praticando e diffondendo il “metodo scientifico” e un atteggiamento di critica e curiosità verso tutto, un atteggiamento che non può che essere investigativo, di confronto con gli Altri, di decodifica di segnali, più o meno complessi, e di reperimento delle “prove” a supporto anche delle nostre e delle altrui argomentazioni. Un’educazione che possa abilitare finalmente le Persone e i cittadini sia a saper verificare/falsificare tesi, argomenti e informazioni di qualsiasi genere, che a confrontarsi soprattutto con chi non ha le stesse idee/opinioni o che, magari, è stato etichettato/riconosciuto come “diverso da Noi”. Un’educazione ed una formazione che, evidentemente, avrebbero ricadute significative anche nella gestione del cambiamento e nell’individuazione di soluzioni (?) realmente innovative.
Mentre l’approccio e l’impostazione dominanti su tali questioni (e non solo), anche nelle successive fasi di individuazione e definizione di azioni e strategie (un discorso che chiama in causa le solite narrazioni egemoni e certo storytelling), pur con tutte le buone intenzioni e gli obiettivi assolutamente condivisibili, continuano ad essere centrati – come detto – oltre che specificamente sugli strumenti e le tecnologie, su una visione del Soggetto (degli attori, individuali e collettivi) come completamente passivo e facilmente manipolabile (le criticità, in tal senso, sono molte). Logiche, strumenti e obiettivi anche “positivi”, talvolta condivisibili nella prospettiva di contrasto dell’emergenza – che, vorrei ricordarlo ancora una volta, è educativa e culturale – che, tuttavia, possono incidere ben poco, per non dire nulla, sulle dinamiche più profonde e radicate che caratterizzano i gruppi (inclusione vs. esclusione, identità vs. riconoscimento, etichettamento, potere, conflitti etc.), l’eterodirezione, il conformismo, i bisogni di socialità e appartenenza, di stima e riconoscimento (da parte degli altri); ma anche la formazione di stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni che sono, di fatto, il terreno su cui germogliano e crescono le bufale, la disinformazione, le narrazioni, la/le post verità, le strategie di persuasione e marketing più aggressive.
Detto in altri termini, proseguiamo a ragionare e lavorare soltanto sugli strumenti e sulle soluzioni di breve periodo (possibilmente, semplici), continuando a mettere un po’ in secondo piano le persone e le soggettività che devono/dovranno interagire con questi stessi strumenti e con gli ecosistemi comunicativi. Ciò che dobbiamo continuamente domandarci è sempre: su chi deve essere posta l’attenzione? Da che cosa dobbiamo ripartire per correggere errori, questioni e problematiche che sono strutturali e che appartengono, evidentemente, alla dimensione educativa e culturale? Una dimensione – lo ribadiamo – strategica per la stessa sopravvivenza delle moderne democrazie, troppo spesso sottovalutata o, comunque, non adeguatamente considerata.
Il lavoro fondamentale da farsi – e che non viene fatto – è sulle Persone e sugli spazi relazionali e comunicativi che abitano; con la consapevolezza che non sono, e non possono essere, la tecnologia e il digitale a garantirci fino in fondo “protezione” e “sicurezza”. Allo stesso modo, non sono, e non possono essere, la tecnologia e il digitale a garantirci in termini di cittadinanza e inclusione!
La tecnologia non può essere, altresì, la nostra difesa contro l’inganno, le truffe, i falsi, il conformismo, la/le post verità etc. I nostri principali “strumenti di difesa” sono, e saranno sempre, l’educazione, l’istruzione, la formazione, l’aggiornamento continuo e la ricerca.
Si tratta di un altro aspetto non secondario e su cui torneremo: nella cd. società della conoscenza e della trasformazione digitale, esiste infatti un sentimento estremamente diffuso, anche in ambito scientifico, legato all’illusione utopica, e utopistica, che soltanto le tecnologie potranno risolvere qualsiasi problema anche in termini di protezione e sicurezza, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti della prassi organizzativa e sociale; saranno le stesse tecnologie a difenderci dalla propaganda (anche la più sofisticata), dalla pubblicità e dalle strategie di marketing (anche le più aggressive) e, più in generale dalle falsità, dalla disinformazione casuale e pianificata, dalle bufale e dalle truffe, da qualsiasi rischio e pericolo. Le tecnologie ci saranno sempre utili e indispensabili ma – lo ripeto – certe questioni vanno risolte ponendo l’attenzione, anche e soprattutto, su altre variabili e concause, allargando il ventaglio dei saperi e delle competenze coinvolti in una prospettiva che non può che essere interdisciplinare, multidisciplinare, transdisciplinare.
E non mi stancherò mai di ripeterlo: propaganda, manipolazione, persuasione (più o meno occulta), disinformazione, bufale (e lo stesso fact checking), narrazioni, storytelling, post verità etc. sono processi, dinamiche e strumenti, sempre esistiti così come la loro ideazione, progettazione e diffusione sistematica: ad essere cambiati sono l’ecosistema (globale) dell’informazione e della comunicazione e le relative architetture che rendono, senz’altro, più virale e invasiva la loro diffusione, anche e soprattutto in termini di tempo.
Il dito e la luna….
Tuttavia, dovremmo prestare attenzione a non far confusione: come già detto, il “vero” problema, a mio parere, non è tanto quello delle bufale o delle post verità, che vanno disvelate e contrastate, prima di tutto provando ad interrogarci se, molto banalmente, queste siano cause o effetti (non condivido tale linearità, la uso solo per semplificare) di complesse dinamiche. In altre parole, se costituiscano la “patologia” di un sistema – e mi riferisco non soltanto al sistema dell’informazione – o siano i sintomi di ben altre criticità che, per tante ragioni, non vengono esplicitate. E, oltre alla centralità strategica di istruzione, educazione, ricerca e formazione, una centralità più volte richiamata in questi anni, dobbiamo fare i conti con un’altra questione: quella riguardante una Politica e dei regimi democratici non più in grado, da tempo, di definire e realizzare le contromisure che davvero sarebbero necessarie per contrastare, a questi livelli, tali preoccupanti derive; derive che sono, in primo luogo, economiche e legate ai sistemi di potere ed ai cd. “cannibali digitali” che, di fatto, hanno in mano e governano il nuovo ecosistema. Ma la Politica – come scrivemmo anni fa – è da tempo “ancella” del potere economico e della tecnocrazia globale e non sembra più in grado di recitare il suo ruolo fondamentale di mediazione e negoziazione dei conflitti e delle pratiche di conflitto, che definiscono le nuove disuguaglianze e le nuove asimmetrie, a livello locale e globale.
Il rischio, estremamente concreto e correlato ad una serie di altri rischi (opportunità), è quello che se non proviamo a correggere da subito questo approccio/visione e questa impostazione generale, in atto in qualche caso anche a livello internazionale, tra qualche tempo, avremo molto probabilmente anche meno bufale e disinformazione in circolazione (sarebbe certamente un buon risultato, ma non basta!), ma continueremo ad avere a che fare e a confrontarci sempre più di frequente (basti pensare a dati e ricerche su analfabetismo, non soltanto funzionale, e povertà educativa, di cui finalmente si comincia a parlare un po’ di più) con una società civile e con opinioni pubbliche costituite da individui eterodiretti, iperconnessi e, talvolta, anche super informati, ma sostanzialmente isolati e facilmente condizionabili. Franco Ferrarotti (#CitaregliAutori) ha parlato addirittura, in tempi non sospetti, di “frenetici informatissimi idioti”! E, non a caso, parlai anni fa di una “nuova società di massa” iperconnessa e del rischio che si affermasse una “cittadinanza senza cittadini”.
E magari ci ritroveremo a dover fare i conti con un sistema, sempre più interconnesso e interdipendente, che, per esempio, potrebbe puntare ad eliminare certe informazioni perché non allineate, “non adeguate”, non conformi a certi dettami e linee guida, “non corrette” secondo certe visioni.
L’impressione è che continueremo, anche in futuro – in una sorta di eterno ritorno dell’identico a sé stesso – a contrastare tali criticità, sempre e comunque, ricorrendo alle solite logiche dell’emergenza arricchite, al livello delle narrazioni, dalle solite contrapposizioni – che tutti dichiarano (soltanto) di voler abbandonare – tra apocalittici e integrati, tra tecno-scettici e tecno-entusiasti, oltre che dalla consueta, e insopportabile, polarizzazione del dibattito, che porta sempre a vedere tutto con le lenti dell’ideologia, della faziosità, dell’appartenenza politica. Derive e traiettorie che impediscono qualsiasi (reale) approfondimento e rafforzano opinioni, luoghi comuni, stereotipi, visioni del mondo già abbondantemente consolidati. Cosa che, spero, non si verifichi almeno in questo caso.
Allo stesso tempo, non è inutile ripeterlo, non saranno le tecnologie e il digitale a ricreare/rinforzare il legame sociale, né tanto meno a rigenerare i meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione (Dominici, 1996 e sgg.). Devo dire che, forse, su questi punti/snodi problematici, sembra che il clima culturale dia qualche timido segnale di cambiamento: molti di coloro che, nelle loro analisi (scripta manent), erano strettamente legati ad un rigido determinismo tecnologico, oltre che a spiegazioni riduzionistiche, attualmente parlano/scrivono di educazione, di centralità della Persona, di pensiero critico, di educazione al metodo scientifico ed alla complessità; perfino, di visione sistemica. Temi e questioni cui, in passato, non erano minimamente interessati, di più li consideravano “superati”, “non degni di nota”, arrivando talvolta perfino a deridere chi sosteneva il contrario; chi poneva, cioè, in una prospettiva sistemica, l’educazione e i processi educativi (e formativi) – e, con questi, i rapporti di potere – al centro di qualsiasi processo di mutamento e cambiamento. Continua, in tal senso, il dominio incontrastato, a livello mediatico e di discorso pubblico, di coloro che, attraverso anche una strategia aggressiva sui social e online, riescono a costruirsi un’immagine/reputazione di super-esperti in tutto, ma proprio in tutto. Super-esperte/i che, di volta in volta, vedono nella dimensione della prassi tecnologica e nelle tecnologie gli “unici” fattori generativi ed evolutivi in grado di modificare i sistemi sociali e le organizzazioni. Si pensi anche all’attuale dibattito su intelligenza artificiale e algoritmi…raccontati quasi come fossero entità soprannaturali e metafisiche. Spostando l’attenzione dai rapporti di potere (sempre decisivi) e dall’interazione complessa tra l’umano e il tecnologico, tra l’umano e la tecnica, tra il “dentro” e il “fuori” di NOI.
Una considerazione conclusiva: la correttezza e il cd. fact checking vanno praticati, oltre che dichiarati, in ogni situazione. Al contrario, registro un numero sempre crescente di Autori/studiosi/giornalisti/blogger che, pur parlando sempre di autorevolezza, credibilità, correttezza, responsabilità, fact checking, notizie false e/o inesatte, non citano mai le Fonti e gli Autori da cui riprendono idee, ipotesi, tesi e argomentazioni.
Epilogo e…altri percorsi
In conclusione, credo che tutte le analisi condotte (e che si condurranno ancora in futuro) su narrazioni, bufale, fact checking, post verità etc., andrebbero inquadrate anche in un discorso, ancora più ampio e di carattere generale, riguardante lo stato di salute e la qualità della democrazia contemporanea. Sempre consapevoli di doverci confrontare con il conformismo dilagante e il bisogno inarrestabile di prossimità culturale e appartenenza, che da sempre caratterizzano (non soltanto) questo Paese. Un Paese tuttora fortemente corporativo e feudale, guidato da élites e reti chiuse che rendono il nuovo ecosistema globale, almeno per ora, un’irripetibile opportunità “per pochi”.
In questa parte conclusiva, nel tentativo di restituire l’interdipendenza e la connessione di tutti i livelli di analisi e discorso, oltre che quelle che segnano tutti gli ambiti della prassi, ripropongo alcuni brani di altri contributi e pubblicazioni del passato, riportando l’attenzione su questioni sulle quali siamo tornati più volte e sulle numerose variabili e concause da considerarsi. L’obiettivo principale è sempre quello di aprire altri percorsi di lettura, analisi e ricerca, immaginando i testi sempre come ipertesti. Evidentemente, non potendo, ancora una volta, fare a meno di rilevare la nostra inadeguatezza di fronte alle sfide ed ai dilemmi della ipercomplessità. Un’inadeguatezza che rischia di aumentare ulteriormente se non cambieremo modelli culturali e culture organizzative delle istituzioni educative e formative (lungo periodo); e, allo stesso tempo, a livello di didattica e di ricerca, se non riusciremo ad uscire da quelle che abbiamo definito “false dicotomie”(cit.), dai nuovi determinismi e riduzionismi, dalle sabbie mobili del determinismo monocausale e di un certo “nuovismo acritico di maniera” (cit.), che contraddistinguono il dibattito pubblico sull’innovazione e la democrazia, la rivoluzione digitale e le nuove asimmetrie, l’informazione, le bufale e la/le post verità, l’economia della condivisione e le reti esclusive, gli ecosistemi interconnessi e le nuove soggettività etc. etc.
- La comunicazione, da noi definita (1996) processo sociale di condivisione della conoscenza (= potere), ha assunto una centralità strategica senza precedenti dentro gli ecosistemi, in tutte le sfere della prassi, all’interno delle reti e dei mondi vitali. Considerando fondata l’equazione conoscenza = potere, ne consegue che tutti i processi, le dinamiche e gli strumenti finalizzati alla condivisione della conoscenza non potranno che determinare una condivisione del potere/dei poteri o, comunque, una riconfigurazione dei sistemi di potere e delle gerarchie (nel lungo periodo). In questa prospettiva, il nuovo ecosistema sociale e comunicativo ha dischiuso interessanti prospettive – ancora tutte da valutarsi – a processi di democratizzazione della scienza e, più in generale, dei saperi, con maggiori opportunità di accesso alle informazioni e di elaborazione delle conoscenze (digital divide vs. cultural divide). Si tratta di un discorso di vitale importanza, anche in termini di cittadinanza e di “nuovo contratto sociale”: istruzione, educazione, ricerca, definiscono le condizioni dell’inclusione e la qualità dei regimi democratici. Tuttavia, non possiamo non rilevare come, proprio quelle stesse caratteristiche e dinamiche che fanno apparire la società interconnessa/iperconnessa un’opportunità, pongono alla nostra attenzione una serie di questioni problematiche che riguardano da vicino la comunicazione della scienza e dell’innovazione tecnologica, la condizione dei saperi, la loro veridicità e attendibilità, perfino la loro reputazione; ma anche, e allo stesso tempo, la condizione dell’ecosistema globale dell’informazione e della comunicazione. Un ecosistema che abbiamo già definito nei seguenti termini: «La società interconnessa è una società ipercomplessa, in cui il trattamento e l’elaborazione delle informazioni e della conoscenza sono ormai divenute le risorse principali; un tipo di società in cui alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione e di trasmissione delle informazioni, che costituiscono dei fattori fondamentali di sviluppo economico e sociale, non corrisponde ancora un analogo aumento delle opportunità di comunicazione, da noi intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza che implica pariteticità e reciprocità (inclusione)» (Dominici,1996).
- «La “nuova” velocità del digitale, nell’interazione complessa con il fattore umano e il sistema delle relazioni sociali, conserva l’ambivalenza originaria di qualsiasi “fattore” di mutamento e di qualsiasi processo sociale e culturale; un’ambivalenza che, oltre ad essere straordinaria opportunità, mette anche in evidenza i nostri limiti e le nostre inefficienze – a livello personale, organizzativo e sociale – ma, soprattutto, ci lascia poco tempo per la riflessione e l’analisi critica su ciò che accade e, più in generale, su una (iper)complessità che mette a nudo la radicale inadeguatezza dei paradigmi, dei modelli interpretativi, delle culture tradizionali e, ancor di più, dei moderni strumenti di controllo e gestione». (cit.)
- «La rivoluzione tecnologica ha definito un nuovo rapporto tra l’individuo e la norma, tra la teoria e la prassi, fornendogli, in qualche modo, l’illusione di essere assoluto sovrano e padrone delle proprie scelte, con il rischio di non tenere nella dovuta considerazione le interazioni, le interdipendenze sociali e la comunità di appartenenza. Diviene così urgente, ma allo stesso tempo problematica, la questione che Hans Jonas ben sintetizza nel concetto di autodeterminazione responsabile (un concetto che, anche di recente, qualcuno si è attribuito, insieme a quello di pedagogia della responsabilità…): un concetto probabilmente in grado di colmare il grande vuoto esistente tra le idee di autonomia e interdipendenza». (cit.)
- «Oggi infatti, come mai in passato, la tecnologia è entrata a far parte della sintesi di nuovi valori e di nuovi criteri di giudizio (Dominici, 1996), rendendo ancor più evidente la centralità e la funzione strategica di un’evoluzione che è culturale e che va ad affiancare quella biologica, condizionandola profondamente e determinando dinamiche e processi di retroazione (si pensi ai progressi tecnologici legati a intelligenza artificiale, robotica, informatica, nanotecnologie, genomica etc.). In altre parole, nel quadro complessivo di un necessario ripensamento/ridefinizione/superamento della dicotomia natura/cultura, non possiamo non prendere atto di come i ben noti meccanismi darwiniani di selezione e mutazione si contaminino sempre di più con quelli sociali e culturali che caratterizzano la statica e la dinamica dei sistemi sociali. Sempre più difficile, oltre che fuorviante, provare a tenere separati i due percorsi evolutivi e, allo stesso tempo, sempre più urgente si fa la domanda di un approccio multidisciplinare alla complessità per l’analisi e lo studio di dinamiche (appunto) sempre più complesse, all’interno delle quali i piani di discorso e le variabili intervenienti si condizionano reciprocamente, mettendo a dura prova i tradizionali modelli teorico-interpretativi lineari. E, ancora una volta, non si tratta di essere “pro” o “contro”, anzi occorre andare oltre la sterile, ma sempre presente e puntuale, polarizzazione del dibattito che ha logiche radicalmente differenti da quelle della produzione e condivisione di conoscenza (potere): dobbiamo acquisire consapevolezza di trovarci difronte ad una trasformazione antropologica (1996) che, mettendo in discussione gli stessi presupposti basilari di pensiero, teoria e prassi, evidenzia ancora una volta l’urgenza di un cambio di paradigma – più volte echeggiato già negli anni Novanta – e la ridefinizione delle stesse categorie concettuali» (cit.).
- «I “vecchi” confini tra formazione scientifica e formazione umanistica sono di fatto completamente saltati, in conseguenza delle straordinarie scoperte scientifiche e delle continue accelerazioni indotte dall’innovazione tecnologica che rendono ancor più ineludibile l’urgenza di un’educazione/formazione alla complessità e al pensiero critico (logica). Tuttavia, le resistenze ad un cambiamento così radicale di prospettiva (modelli, pratiche e strumenti) sono fortissime, arrivano soprattutto dai “luoghi” ove si produce e si elabora conoscenza e sono legate a motivazioni di diversa natura: logiche dominanti, modello sociale feudale, questione culturale, primato della politica in tutte le dimensioni, familismo amorale, culture organizzative, climi d’opinione etc. Fondamentalmente, soprattutto perché, come affermato in tempi non sospetti, in qualsiasi campo della prassi individuale e collettiva, innovare significa mettere in discussione saperi e pratiche consolidate, immaginari individuali e collettivi, rompere equilibri, spezzare le catene della tradizione (cit.), abbandonare il certo per l’incerto con rischi (opportunità), anche percepiti, notevolmente superiori. In altre parole, rendere, almeno temporaneamente, più vulnerabili i sistemi e lo spazio comunicativo e relazionale che li caratterizza. Una questione strategica e decisiva per il complesso processo di costruzione, sociale e culturale, della Persona e del cittadino e, quindi, dello spazio pubblico, che riveste un ruolo di fondamentale importanza anche in considerazione del costante e rapido mutamento del contesto, locale e globale, di riferimento (Società Ipercomplessa)» (cit.).
- La ipercomplessità non è – e non è mai stata – un’opzione, è un “dato di fatto”: purtroppo, c’è ancora poca consapevolezza di trovarsi di fronte ad una ipercomplessità che si è a tal punto estesa da rendere estremamente difficile e complicato qualsiasi tentativo di fornire/formulare schemi di riduzione della complessità e di analisi che d’altra parte, quasi inevitabilmente, ne restituirebbero una visione quanto meno parziale; da rendere quasi impensabile e, addirittura, utopistico quello, ben più ambizioso, di definire un modello teorico-interpretativo (dimensione fondamentale ma troppo spesso sottovalutata, considerata perfino “inutile”…) o un sistema di pensiero in grado di spiegare il mutamento in atto; in grado di riconoscere e comprendere l’ambivalenza e l’interazione di tutti i livelli problematici coinvolti. Non è un caso, infatti, che si ricorra a “vecchi” modelli e schemi interpretativi, magari riadattati con qualche neologismo ad effetto per presentarli come originali e innovativi. Si tratta di una complessità ulteriormente accresciuta dalla rilevanza, sempre più strategica, che la comunicazione e l’innovazione tecnologica hanno assunto, non soltanto nei processi educativi e di socializzazione, ma anche e soprattutto nella rappresentazione e percezione di dinamiche e processi evolutivi sistemici. Dimensioni problematiche complesse che, evidentemente, condizionano anche interpretazioni e narrazioni egemoni. Il vero problema è che – da sempre – continuiamo a non essere educati e formati a riconoscere questa ipercomplessità e, in ogni caso, non con la nostra testa (1998 e sgg.). Un’inadeguatezza resa ancor più evidente nella società dell’interdipendenza e dell’interconnessione globale: un “nuovo ecosistema” (Dominici, 1996) in cui tutto è (almeno, in apparenza) collegato e connesso, all’interno di processi e dinamiche non lineari, con tante variabili e concause da considerare.
- «Gli obiettivi fondamentali dell’educazione digitale e, più in generale, tecnologica sono, a mio avviso, differenti e concernono molteplici livelli di analisi e intervento che provo a sintetizzare e richiamare in alcuni punti: 1) la cd. educazione digitale deve (dovrebbe) quanto meno accrescere la consapevolezza (su questo aspetto registro, ormai, un discreto consenso) rispetto alle molteplici variabili in gioco; 2) l’educazione digitale deve (dovrebbe) definire e creare le condizioni di un approccio realmente critico e sistemico alla trasformazione in atto: su tale aspetto, invece, c’è davvero tanto da lavorare, dal momento che certi concetti continuano ad essere usati, sostanzialmente, come slogans; 3) l’educazione digitale deve mettere in condizione le Persone (e i Cittadini) di affrontare e gestire le dinamiche e i processi che scaturiscono non soltanto dall’innovazione tecnologica, ma da numerosi altri fattori (economico, sociale, politico, culturale) che contraddistinguono il nuovo ecosistema; in maniera tale che giovani (e adulti) siano in grado, non soltanto di difendersi dai “lati oscuri” del digitale, di “saper utilizzare” gli strumenti e abitare i nuovi ambienti, ma anche, e soprattutto, siano in grado di saperne sfruttare i vantaggi e le enormi potenzialità sia per la condivisione di informazioni e conoscenza che per la costruzione/rafforzamento/intensificazioni delle reti di relazionalità (comunicazione vs. connessione)» (su Il Sole 24 Ore).
- «L’educazione digitale va profondamente ripensata sulla base anche di una ridefinizione degli obiettivi fondamentali. Ciò implica il passaggio, tutt’altro che semplice e scontato, da una visione limitata dell’educazione digitale – e, sia chiaro, dell’educazione nel suo complesso – intesa come “strumento” (o insiemi di strumenti) e come insieme di “competenze” funzionali a preparare tecnicamente, ed al “saper fare”, i nostri giovani (e con loro, gli insegnanti, i dirigenti, le Persone etc.) ad una visione/concezione dell’educazione come cultura della complessità e della responsabilità, entrambe costruite dentro un’epistemologia dell’incertezza (Morin). Allo stesso tempo, va ripensata anche come insieme di strumenti complessi in grado di rendere effettivi diritti e doveri fondamentali per la stessa sopravvivenza delle moderne democrazie. Democrazie che appaiono in crisi, con una politica a dir poco marginale rispetto alla sfera dell’economia e della tecnocrazia e con un perdita di credibilità delle istituzioni che affonda le sue radici in sistemi sociali sempre più diseguali e asimmetrici, con distanze sempre più nette tra ricchi e poveri, tra chi può accedere ad un’educazione e formazione di qualità. La correlazione tra educazione e cittadinanza/inclusione si rivela, in tale prospettiva, ancor più evidente e conseguenziale. Perché non sono, e non saranno, la tecnologia e/o il digitale a determinare cittadinanza e inclusione, o a creare le famose “Teste ben fatte” (Montaigne). In tal senso, al di là di queste considerazioni preliminari, ci tengo a precisare che, a mio avviso, esiste un altro rischio, estremamente concreto: quello di pensare (e agire di conseguenza) che l’educazione digitale – e, con essa, la stessa cultura digitale …anzi le stesse culture digitali – sia una questione meramente “tecnica”, di “preparazione tecnica”, di “competenze” specifiche legate (esclusivamente) alla “natura” delle (nuove) tecnologie della connessione e dei nuovi ecosistemi/ambienti comunicativi» (su Il Sole 24 Ore).
«[…]la stessa definizione di educazione digitale va – come già detto – rivista, allargata ed estesa ad altri approcci, ad altre conoscenze e competenze – tra i due termini, mettendo al centro sempre quello di “educazione” – proprio perché non dobbiamo soltanto educare e formare “individui” consapevoli della complessità digitale (anche se sarebbe già un buon risultato), tecnicamente preparati; dobbiamo educare e formare Persone (prima) e Cittadini (poi) in grado di saper riflettere, pensare, argomentare, organizzare, in maniera logica, critica, corretta ed efficace; capaci di immaginare o, meglio ancora, riconoscere/saper riconoscere la complessità e i livelli di connessione e di relazione tra le Persone, tra i sistemi, tra le Persone e i sistemi. Approccio, metodo, conoscenze e competenze che devono essere una costante, un elemento di continuità nei percorsi didattico-formativi delle nostre scuole e delle nostre università.
«Finché non prenderemo consapevolezza e non saremo in grado di chiarire questo “grande equivoco” (#CitaregliAutori) posto già alla base del dialogo (negato) tra i saperi e le competenze, alla base della vita pubblica e della democrazia, non riusciremo a correggere l’attuale rotta di navigazione che ci porta soprattutto ad adattarci al cambiamento e non a saperlo gestire e modificare. Al di là dei tanti paradossi del mutamento in atto, il grande “equivoco”, nella/della civiltà ipertecnologica e ipercomplessa, è quello di continuare a pensare l’educazione e i processi educativi (vale anche per la formazione) come “questioni esclusivamente di natura tecnica”, un problema soltanto di “competenze” e di “saper fare” (punto e basta), un problema – una serie di problemi – da affrontarsi puntando tutto su velocità e simulazione. E continuando a riprodurre, a non correggere, la drammatica separazione tra formazione umanistica e formazione scientifica (di volta in volta, continueremo ad affermare che serve più l’una o più l’altra), siamo destinati a perder sempre più di vista l’insieme, il complesso, il globale, l’ALTRO DA NOI».
- «[…] dobbiamo ripensare e rivedere lo stesso concetto di “educazione digitale” che, di fatto, per come l’abbiamo immaginata e definita, rappresenta sempre più lo “strumento” complesso di definizione delle condizioni strutturali di una partecipazione “non simulata” e di una cittadinanza piena, effettiva, partecipata e – come ripeto spesso – “non eterodiretta”. Sempre in questa prospettiva: se non si ripensa l’educazione e, ancor di più, il pensiero sull’educazione, modificando in tale direzione le scelte e le strategie riguardanti sia la didattica che la formazione (continua e sistematica, con una parte flessibile e modulare) di tutte le figure coinvolte ai vari livelli anche decisionali, non andremo molto lontano e continueremo a tentare di cavalcare il mutamento ricorrendo alle solite vecchie logiche di breve periodo. L’educazione digitale dev’essere immaginata e ripensata, comunque e sempre, nella direzione della costruzione sociale e culturale della Persona (prima) e del Cittadino (poi)» (Dominici, 1998 e sgg.).
- «[…] Occorre essere consapevoli che il futuro è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali. Andando oltre quelle che, in tempi non sospetti, avevamo definito le «false dicotomie»: teoria vs. ricerca/pratica; formazione scientifica vs. formazione umanistica; conoscenze vs. competenze; hard skills vs. soft skills (proprio in questa prospettiva cfr., in particolare, “Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente – EQF” – vedi distinzione tra “conoscenze”, “abilità” e “competenze”; cfr. anche i Descrittori di Dublino, riferimenti importanti ma poco conosciuti, anche in ambito universitario; si veda anche un testo del WEF, World Economic Forum, “8 digital life skills all children need” dove, tra le “digital life skills” si fa riferimento, con un approccio che non mi convince assolutamente – ma ci torneremo – anche al critical thinking “pensiero critico” e si parla addirittura di “empatia digitale”(?) à “digital empathy”…e torno a ripetermi, non è un problema soltanto di “competenze”, al di là di come possiamo intendere un concetto importante, sul quale sono state proposte infinite definizioni, dalle più specifiche a quelle più onnicomprensive e universali)».
- La complessità sociale (e organizzativa), pur nella sua particolarità, costituisce sempre un problema di conoscenza e di gestione della conoscenza (Dominici 2003, 2011), di possibilità conoscitive che possono essere effettivamente selezionate e realizzate, tradotte in scelte e decisioni – non possiamo non richiamare anche la weberiana sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo. Una complessità, così come l’abbiamo intesa, ulteriormente accresciuta e, contrariamente a quanto si potrebbe pensare (nella cd. Società Interconnessa -> + informazioni + dati = + razionalità nelle scelte e nelle decisioni), ancor più imprevedibile – nonostante la dimensione del tecnologicamente controllato sia aumentata in maniera esponenziale – proprio in virtù dell’enorme (infinita) mole di dati e informazioni che, non soltanto non parlano mai da soli, ma determinano una condizione permanente e costante di razionalità limitata a tutti i livelli, da quello organizzativo a quello sociale.
- «Continuiamo ad assistere alle preoccupanti derive del sistema dell’informazione, che non riguardano soltanto la spettacolarizzazione indiscriminata delle notizie. Notizie inventate, autentiche “bufale” che la Rete e i social alimentano fino a renderle “vere” (a forza di ripeterle e riprodurle…), descrizioni minuziose, soprattutto, dei fatti di violenza…ma anche ricerche e dati non attendibili con note metodologiche parziali o inesistenti; inchieste costruite a tavolino, per non parlare di video e foto “choc” (così vengono sempre definiti) che devono emozionare i destinatari, giocando sulla loro (nostra) emotività e sulla mancanza di approfondimento (si pensi p.e. alla tragedia dei migranti); casi sempre più frequenti in cui, in nome del diritto/dovere di cronaca, si “allegano” immagini di violenze (anche efferate) di tutti i generi, ne leggiamo/vediamo/ascoltiamo di tutti i colori: non mancano risse (in qualsiasi contesto, meglio se in famiglia), rapine (possibilmente con sparatoria…altrimenti funziona meno), arresti in diretta, violenza (efferata), torture, decapitazioni, esecuzioni (ricorderete anche i “prigionieri annegati in gabbia”), persone bruciate vive, morti violente; perfino le immagini di persone decedute nel corso di incidenti stradali vengono mostrate…soprattutto se c’è del sangue…soprattutto se si può vedere il corpo, magari anche una mano può bastare. Il tutto accompagnato da testi e descrizioni con un linguaggio pertinente e assolutamente funzionale alla spettacolarizzazione. La morte e la violenza fanno spettacolo da sempre (la malattia no…), non ci sono limiti, occorre mostrare tutto perché soltanto così tutto è più “vero” e “reale”(?), non preoccupandosi minimamente neanche dei parenti dei protagonisti coinvolti nelle situazioni. Se ne discuteva vent’anni fa e mi fa davvero una certa impressione constatare questa evoluzione interrotta, oltre che preoccupante: già allora si diceva che il problema era di competenze ‘tecniche’ e di conoscenza dei “mezzi” (condizioni necessarie ma non sufficienti), già allora si affermava che nuovi codici deontologici e professionali avrebbero risolto le criticità. Non è andata proprio così e lo possiamo verificare ogni giorno. Codici deontologici e professionali sono una garanzia importante di un’autonomia che, tuttavia, non si traduce in responsabilità. In ogni caso, dietro queste logiche, la convinzione (forse) di accontentare dei pubblici ormai assuefatti (logiche del marketing e non dell’informazione/comunicazione), che cercano, anche morbosamente, di vedere, spiare, assistere a qualcosa che non è spettacolo, non è fiction ma è drammaticamente “reale”. In fondo, le stesse logiche di certi programmi televisivi – al di là di tante chiacchere, la TV è ancora il medium centrale nelle diete informative e multimediali – che “per amore della verità”(?) indagano su crimini e delitti costruendo racconti e narrazioni che diventano puntate di una serie infinita di reality show o di romanzi horror, che affascinano il grande pubblico, da parte sua sempre pronto a portare la discussione sui social. Tutto questo – dicevo – all’insegna di un’informazione (?) che deve emozionare coinvolgere ma fino ad un certo punto …contano le “spezie” (Popper). Le stesse pagine on line della grande stampa e, più in generale, delle più importanti testate giornalistiche non resistono alla tentazione di raccontare questi “fatti” spettacolarizzando e rendendo disponibili immagini, anche inquietanti (molto di moda anche gli episodi di autolesionismo e di “giochi” pericolosi), che nulla (nulla!) hanno a che fare con la completezza dell’informazione. […] Sono trascorsi vent’anni (parlo per il sottoscritto) e siamo al punto di partenza…l’unico espediente adottato (e non sempre) è quello di avvisare il lettore/spettatore che foto e video potrebbero urtare la sua sensibilità così – come dire – “ci si salva la coscienza” e ci si mostra “responsabili”. Nel frattempo, questo tipo di testi, puntualmente, diventano “virali” e, in un certo senso, ci si vanta di questo risultato (numero di like, di cuoricini e di condivisioni) quasi come si fosse realizzata un’inchiesta importante. Dunque, la solita ricerca incessante della spettacolarizzazione e di un’informazione “emotiva” che, non solo non approfondisce, ma si pone come obiettivo quello di intrattenere più che informare. Tutto va bene e funziona nel grande “circo mediatico” e nell’infosfera, purché faccia lettori, ascolti e raccolga pubblicità. Si tratta, lo ripeto ancora una volta, degli stessi meccanismi che sono dietro le bufale, la disinformazione, le post verità e certe narrazioni…Un circo mediatico – lo ribadisco – segnato da logiche di marketing che hanno portato alla completa rimozione della centralità e della dignità delle Persone. Questioni di consapevolezza, questioni di libertà e responsabilità nell’informare e nel comunicare che non riguardano il livello delle competenze tecniche.
- «E il livello strategico è, ancora una volta, quello concernente i processi educativi di cui sono protagoniste (dovrebbero esserlo) la Scuola, sopra ogni cosa, e le altre agenzie di socializzazione che peraltro, in questi ultimi decenni, si son viste divorare da media, reti e gruppo dei pari lo spazio educativo e della socializzazione; è il livello cruciale dove è possibile educare e formare teste bene fatte (Montaigne) e non teste ben piene; è anche il livello strategico dove (almeno) provare a coltivare e praticare l’empatia, il dubbio, il pluralismo e il riconoscimento del valore della diversità per costruire società aperte e realmente inclusive, fondate su cultura della legalità, della prevenzione, della responsabilità, del rispetto, della non-discriminazione; infine, è il livello cruciale dove determinare le condizioni socioculturali per un ridimensionamento dell’egemonia dei valori individualistici ed egoistici, che hanno significativamente contribuito all’indebolimento del legame sociale e della Comunità. Percorsi che, inevitabilmente, si incrociano, fino a sovrapporsi, e che riguardano allo stesso tempo teoria e ricerca scientifica, scuola e università, cittadinanza e democrazia, eguaglianza delle condizioni di partenza e inclusione. Educazione e cittadinanza…Educazione è cittadinanza, educazione è possibilità di partecipazione, educazione è inclusione».
- «L’innovazione è processo complesso, anzi è complessità: istruzione, educazione, formazione – evidentemente – ne devono (dovrebbero) essere gli assi portanti, non semplici “strumenti” che arrivano a valle dei processi di mutamento per correggere traiettorie e discontinuità inattese e/o imprevedibili. Altrimenti, saremo sempre costretti a rincorrere le accelerazioni dell’innovazione tecnologica, con pochissime speranze di raggiungerla e, allo stesso tempo, di metabolizzarne i cambiamenti indotti. I rischi – come dico sempre – rimangono quelli di un’innovazione tecnologica senza cultura e di una illusione della cittadinanza: una cittadinanza e una partecipazione, non negoziate e costruite socialmente e culturalmente all’interno di processi inclusivi, bensì “simulate” e imposte dall’alto senza calarsi, completamente e concretamente, nelle prospettive e nei mondi vitali dei destinatari di queste azioni/strategie. Di coloro che sono chiamati a praticare/esercitare la cittadinanza e la partecipazione, alimentandole, co-costruendone le condizioni strutturali e socioculturali e ri-producendole costantemente. Siamo di fronte alla necessità ed all’urgenza di scelte strategiche di lungo periodo anche coraggiose che, nella società interconnessa e ipercomplessa (2003), riguardano sempre più, non soltanto la possibilità di adattarsi e/o gestire il cambiamento (globalizzazione, connettività complessa, rivoluzione digitale, economia e società della condivisione, nuove asimmetrie e disuguaglianze etc. à cfr. anche mia definizione di “società asimmetrica”), ma le stesse opportunità di scegliere tra la “libertà/responsabilità di essere cittadini” e la “libertà/responsabilità di essere sudditi” (Dominici, 2000). Tra partecipazione e libertà di essere sudditi. Nell’utopia di poter andare oltre la libertà di essere sudditi !».
Segnalo alcuni articoli e contributi:
- “Per un’innovazione inclusiva**: ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico”
- “Innovare significa destabilizzare”. Perché la (iper) complessità non è un’opzione
- “Il grande equivoco. Ripensare l’educazione (#digitale) per la Società Ipercomplessa”
- “La società asimmetrica* e la centralità della “questione culturale”: le resistenze al cambiamento e le “leve” per innescarlo”
- “L’ipercomplessità e una crisi non soltanto economica. Ripensare il sapere e lo spazio relazionale”
- “La condizione del sapere nella società della conoscenza: tra condivisione e riproducibilità “tecnica”(?)” Tra le interviste, condivido volentieri:
- Intervista concessa a l’Huffington Post: “La cultura della complessità come cultura della responsabilità”
- Intervista concessa a VITA: “Nella società ipercomplessa, la strategia è saltare le separazioni” http://www.vita.it/it/interview/2017/06/09/nella-societa-ipercomplessa-la-strategia-e-saltare-le-separazioni/119/
*Ho condiviso la versione estesa e originale, con il relativo titolo, di un contributo pubblicato tempo fa.
#CitaregliAutori
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#CitaregliAutori
N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui. Le citazioni si fanno, in primo luogo, per correttezza e, in secondo luogo, perché il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale) è sempre il risultato del lavoro di tante “persone” che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci anche ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro.
I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi.
Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da oltre vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.
Buona riflessione!
Immagine: opera di Banksy