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Individualismo, fine del legame sociale e del vincolo di appartenenza alla Comunità. Storie di precarietà And uncertainty divenute, ormai per molte persone, condizioni esistenziali…una crisi non soltanto economica, aggravata dall’indebolimento del tessuto sociale e dei meccanismi sociali della cooperazione e della fiducia; in molti casi, dalla stessa percezione di una solitudine che non è “visibile” e non fa rumore e dall’assenza di una rete sociale di sostegno. Si tratta di questioni cruciali che studio da anni ma che, soprattutto, ci riguardano tutt* da vicino. Passatemi la semplificazione (perché le questioni vanno sempre sciolte, evidenziandone la complessità e i molteplici nessi di causalità/livelli di connessione): proprio nella cd. società della comunicazione e delle reti, che sono riproduzione ed estensione di quelle preesistenti all’interno dei sistemi sociali** (1998), assistiamo – con qualche timido segnale di risveglio, che puntualmente si verifica dopo crisi e/o disastri (cfr. letteratura sul tema del share capital and of trust) – all’indebolimento del tessuto sociale e di quei “dispositivi” che rendono possibile la coesione sociale (culture e modelli culturali compresi). Non a caso se, da una parte, abbiamo parlato di trasformazione antropologica, Of nuovo ecosistema (1996) and of a individuo sempre più libero e autonomo (?), dall’altra, non abbiamo potuto fare a meno di rilevare come sia anche sempre più “isolato” nelle scelte e nel riferimento a sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo, già di per sé indefiniti e frammentari. Tornano attuali, mai come ora, categorie concettuali come “anomie” (Durkheim) e “ethical void” (Jonas) e, forse, per provare a comprendere la “natura” complessa e ambigua del mutamento in atto, occorre ripartire proprio da quel progetto della modernità che ha prodotto non soltanto emancipazione, delle masse e delle “nuove soggettività”, ma anche “forze centrifughe” e disgreganti (Dominici 2003,2005,2014). È la Società Interconnessa (connessione vs. comunicazione) basata su un’economia politica dell’insicurezza (politiche, welfare etc.) e su opportunità che per ora riguardano, esclusivamente, elite e gruppi ristretti legati a saperi esperti (architettura aperta ma reti chiuse) (1998); anche su questo abbiamo lavorato molto ma c’è ancora tantissima strada da percorrere (assenza di politiche -> lungo periodo) e richiede un cambiamento culturale radicale che coinvolga più livelli. Inclusione, cittadinanza digitale, democrazia…società della conoscenza sono ancora ‘lontane’ e, sempre più spesso, l’impressione è che si navighi a vista, oltretutto con un preoccupante ridimensionamento della sfera dei diritti individuali e collettivi che viaggia di pari passo con il ruolo di una Politica sempre più marginale e sempre meno autonoma dalla sfera economico-finanziaria. Il pericolo serio e concreto è quello di continuare a interpretare ed affrontare questa crisi, così drammatica, affidandosi a spiegazioni riduzionistiche e deterministiche e, contemporaneamente, sottovalutando la “questione culturale” e uno dei grandi “mali” del nostro tempo, ad essa correlato: l’indifferenza (1998).
Progresso tecnologico ed economico condizioni necessarie ma non sufficienti ad affrontare una crisi che è anche, e soprattutto, culturale e di civiltà.
La crisi contemporanea, infatti, riguarda da vicino i sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo, le credenze e le pratiche condivise, i meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione su cui, non soltanto si fonda il legame sociale, ma poggia l’idea stessa di civiltà, Of Person, Of dignità umana, Of citizenship and of democracy. Ed è una crisi anche, e soprattutto, della comunicazione così come l’abbiamo intesa fin dal primo momento: processo sociale (complesso) di condivisione della conoscenza = potere (1996). Una crisi che riguarda tutti i livelli, da quello dei sistemi sociali a quello delle organizzazioni complesse, per arrivare al livello delle relazioni sociali and of mediazione simbolica. Ad essere tirate in ballo anche le identity and the subjectivity e, come detto più e più volte anche in passato, è quanto meno paradossale che tutto ciò si verifichi proprio nella cd. società globale della comunicazione. Questa, una delle ragioni per cui ho preferito parlare di “società interconnessa” (comunicazione vs. connessione), sforzandomi di fornirne una definizione operativa chiara (altrimenti si scade, come spesso capita in queste aree di studio e ricerca, nel puro “nominalismo” e/o nella parola-chiave/neologismo più alla moda), che ponesse l’attenzione sulle ruolo delle asimmetrie informative e conoscitive, sui rapporti di potere (1995), on logiche di controllo e sorveglianza sempre più stringenti che caratterizzano quella che, diversi anni fa, avevo definito la hypercomplex society; una definizione operativa che prendesse le mosse dalla profonda consapevolezza che, in qualsiasi campo della prassi sociale e umana, la sempre più crescente interdipendenza dei sistemi e l’accumulo di informazioni (dis-informazione) non determinano e non garantiscono produzione e condivisione di conoscenza, anzi… (Dominici 1998, 2003). Una “risorsa”, quest’ultima, indispensabile ed unica (parliamo, non a caso si parla di economia della conoscenza) che – la dico così – non se la passa troppo bene anche a causa della radicale parcellizzazione dei saperi e delle competenze, nonché dell’eccessiva specializzazione che, di fatto, contribuisce ad isolare e deresponsabilizzare gli individui all’interno delle organizzazioni e, più in generale, dei sistemi sociali (temi su cui sono tornato spesso e sui quali non si improvvisa -> scuola, università, logica della torre d’avorio, educare e formare alla complessità, competenze per la complessità etc.).
Di fondamentale importanza, in tal senso, ridefinire lo spazio del sapere e ripensare lo “spazio relazionale” (1996 e sgg.), all’interno del quale si costruiscono le identità – che non sono mai date una volta per tutte…in costante divenire – e le soggettività: “costruzione” che avviene attraverso il dialogo, la conversazione, la reciprocità, l’empatia, la comunicazione = processo sociale (complesso) di condivisone della conoscenza (potere). Siamo sempre un “NOI” e non un “IO” (identità <-> riconoscimento), anche se non ne siamo consapevoli**. Esistiamo, sempre e comunque, all’interno di un sistema di reti di conversazione e comunicazione. Pensiero critico ed educazione alla complessità, da subito: la via per le #TestebenFatte. Perché conoscere/sapere è vivere e viceversa e tali dinamiche nascono e si evolvono, sempre e soltanto, attraverso gli ALTRI, in chiave sistemica, oltre che relazionale**. Livello “micro” (quello delle relazioni e dell’interazione sociale) e livello “macro” (quello delle organizzazioni, dei sistemi, degli Stati-nazione etc.), non soltanto non sono separati, ma si influenzano reciprocamente e sono in costante connessione e relazione…un duplice livello di analisi** che, come ripetuto tante volte negli anni, richiede approccio alla complessità e una prospettiva sistemica (superamento del principio di causalità, di qualsiasi forma di determinismo mono-causale e riduzionismo; tante le concause e molteplici le variabili da considerarsi; sistemi e organizzazioni evolvono e si differenziano non in maniera lineare etc.). La sfida della e alla complessità ci chiede di ripensare educazione e istruzione, in maniera profonda, radicale. Significa ripensare gli stessi concetti di “libertà”, di “comunità” e, conseguentemente, di “democrazia” e, per arrivare alla stretta attualità, ripensare la nostra idea di Paese, di Europa, di Umanità (parlavo dell’urgenza di un “nuovo umanesimo”, esattamente, vent’anni fa…). Può sembrare la più classica delle lotte contro i mulini a vento…non è così e va portata avanti!
Riprendo due parti di altri articoli pubblicati in passato:
“[…] Da questo punto di vista, il new ecosystem of knowledge trova nell’economia interconnessa potenziali opportunità di democratization della conoscenza e dei processi culturali in grado di scardinare, definitivamente, il vecchio modello industriale costituito da assetti consolidati, gerarchie, logiche di controllo e di chiusura al cambiamento. La knowledge, risorsa immateriale strategica per il mutamento in corso, comincia ad essere sempre più vista e percepita come common good able to ristabilire rapporti sociali e di potere meno squilibrati e asimmetrici.
In questa stessa linea di discorso, è di vitale importanza il non ricadere nell’errore storico di misurare le disuguaglianze solo sulla base di indicatori economici: l’accesso alla conoscenza, all’informazione, all’istruzione, la possibilità di vedere riconosciuti la propria identità e i diritti di cittadinanza, l’eguaglianza delle opportunità, le libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero e di realizzarsi, lo sviluppo della società aperta sono indicatori fondamentali tanto quanto il reddito pro-capite o il PIL. La politica deve attivarsi affinché i media sociali e le reti diventino tecnologie di cooperazione And non di controllo, aprendo alla sperimentazione di nuove forme di partecipazione democratica ed al potere delle “moltitudini mobili e intelligenti” (concetto di Rheingold, 2002).
La logica del libero mercato autoregolato ha avuto un peso rilevante ma la dimensione socioculturale continua a rimanere assolutamente strategica nella lettura anche di fenomeni e processi economici. In tal senso, non possiamo non prendere atto come la società globale sia stata plasmata dai valori di un individualismo talvolta esasperato – anche dalla stessa retorica postmoderna – e dal mito di una produttività senza lavoratori. A nostro avviso, è stata creata quasi una mitologia dell’Individuo autonomo e svincolato da ogni legame, un individuo che, per le sue azioni, sembra non dover rispondere a niente e nessuno: altro che il riferimento alla ben nota distinzione tra etiche dell’intenzione ed etiche della responsabilità. Siamo andati ben al di là di ogni vincolo giuridico e/o culturale: contano il denaro e il consumo e l’unico (micro)potere dei cittadini è nel loro essere consumatori. Tali dimensioni, insieme al vuoto di significato lasciato dalla crisi delle ideologie, hanno prodotto, tra le conseguenze, anche una sorta di generale disarmo morale che nutre la “società dell’irresponsabilità” (Dominici, 2010): una società (NOI e le reti sociali di cui facciamo parte) priva di qualsiasi senso di appartenenza alla comunità e di etica del sacrificio. Un tipo di società dove, al di là di un quadro normativo e deontologico estremamente articolato, l’etica e la responsabilità sono molto “parlate”, “visibili” e discusse, non soltanto mediaticamente parlando (oggi, forse, come mai in passato), ma poco praticate (il valore della coerenza…come dico sempre, tra ETICA ed ETICHETTA). La mitologia dell’individuo sovrano, portatore di diritti ma non di doveri, ha prodotto danni difficilmente calcolabili/valutabili soprattutto per ciò che concerne il rispetto del Bene comune e della “cosa pubblica”, ma anche il modo di percepire e osservare norme, valori, regole, modelli di comportamento etc.; una mitologia o, per meglio dire, una narrazione che ha prodotto, tra gli altri effetti, una deregolamentazione negativa e una deresponsabilizzazione degli attori sociali, a tutti i livelli. Anche da questo punto di vista, occorre uscire da questa fase di navigazione a vista, in cui i legami tra l’individuo e le istituzioni, tra l’individuo e le tradizionali outreach agencies (famiglia, scuola, religione etc.), tra la Politica e i cittadini, si sono fortemente indeboliti e questa distanza che si è creata ha certamente favorito il coinvolgimento sempre più massiccio e decisivo dei media – e nello specifico della Rete e dei media sociali – nel processo di formazione delle identità individuali e collettive e, perfino, nel riconoscimento e nella definizione operativa delle istanze sociali su cui operare delle rivendicazioni nei confronti della Politica**. Questa ulteriore proliferazione dei centri formativi e, più in generale, delle arene in cui si sostanzia il pensiero e si progetta la prassi procede di pari passo con la communication crisis che ha investito le istituzioni e gli attori tradizionali del processo formativo, sospesi tra informazione eccessiva e paura della disconnessione.
L’egemonia della razionalità strumentale e dell’economia di mercato (autoregolato) ha finito con il far trionfare una logica di dominio che è stata estesa alla totalità della vita sociale. Tale processo ha indebolito anche i legami che trasformano le scelte individuali in progetti e azioni collettive. Al livello della coabitazione sociale, si è generata pertanto una società globale fortemente individualizzata, che scarica molte più responsabilità sulle spalle di ogni singolo attore sociale richiedendo una libertà responsabile. Sotto questo aspetto, lo sviluppo delle forme di comunicazione mediata (Thompson,1995), al di là dei vantaggi in termini di telelavoro e di distribuzione della conoscenza, potrebbe anche raffreddare ulteriormente i meccanismi protagonisti della produzione di capitale sociale.
La crescita esponenziale del potere finanziario ha avuto conseguenze estremamente negative per l’economia-mondo e, soprattutto, per la vita delle persone; il processo di formazione di uno spazio virtuale, ove far scorrere ad altissima velocità i flussi economici ed informativi, non ha fatto altro che privare la Politica e i sistemi di potere del controllo sul proprio “corpo”, separandoli ulteriormente dalla società civile e dai singoli attori sociali. E credere che la tecnologia (in particolare, le reti) possa risolvere qualsiasi problema, compreso il riavvicinamento tra Politica e cittadini potrebbe rivelarsi l’ennesimo errore fatale. Dal momento che la prassi politica e sociale, pur trovando nuove arene virtuali di costruzione e organizzazione del consenso e/o delle opinioni, richiede il passaggio cruciale dall’elaborazione teorica all’azione pratica, concreta, che deve incidere sul decisore politico. E per far questo occorrono attori sociali informati e criticamente formati in carne e ossa, destinatari attivi e consapevoli dentro le loro reti di cooperazione sociale […]”
Ed ancora:
“[…] Oltre alla più volte richiamata marginalità della Politica (aspetto preoccupante), la liberalizzazione dei mercati mette ancora più in evidenza l’assenza di istituzioni globali realmente funzionanti e operative: un vuoto di potere a livello transnazionale, per certi versi, paradossale in un’epoca profondamente segnata da logiche di controllo e sorveglianza globali, rafforzate da sistemi sempre più interdipendenti. L’economia globale, dunque, sta affrontando un processo di radicale ristrutturazione che implica il ridimensionamento del capitale fisico e il trionfo dell’offerta di servizi sulla vendita di beni e sugli scambi di proprietà: l’accesso è diventato la nuova misura dei rapporti sociali (Dominici). Oltretutto, dopo la recente crisi finanziaria mondiale, il capitalismo globale e tecno-nichilista (definizione di Magatti, 2009), caratterizzato dalla progressiva acquisizione dei vissuti sociali di ogni singolo cittadino/consumatore, sembra sul punto di legittimare anche nuovi modelli di scambio sociale. Individui e istituzioni sono coinvolti in un processo di commercializzazione di tutta la prassi che delinea uno scenario, per certi versi, inquietante nel quale vengono messe in discussione le strutture tradizionali del legame sociale.
[…] La complessità insita nel processo di globalizzazione ci obbliga a riformulare tutte le categorie dell’agire politico e ad allargare i nostri orizzonti di pensiero e di azione, elaborando una politica che non si limiti soltanto ad osservare le regole, bensì provi a cambiarle anche perché la stragrande maggioranza di queste stesse regole sono state definite in un contesto di Stato-nazione forte (Dominici,1998, 2003,2008). Anche perché il mercato mondiale non può, come finora è accaduto, essere lasciato andare alla deriva senza un progetto autorevole e credibile di sviluppo globale: «Dove il mercato è abbandonato alla sua autonormatività, esso conosce soltanto una dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali siano portatrici» (Weber, 1922) […]”
In conclusione, non è inutile ribadire, alla luce della complessità delle problematiche considerate, i rischi non soltanto di tipo interpretativo (ricorso a spiegazioni riduzionistiche e deterministiche) – le culture delle classi dirigenti traducono questi modelli e queste visioni in azioni e strategie (?) – legati alla diffusa convinzione (che non appartiene solo ad alcuni economisti e tecnocrati) che progresso tecnologico e ripresa economica possano risolvere, prima o poi, tutte le questioni: si tratta di condizioni necessarie, di “variabili” di fondamentale importanza, tuttavia, non sufficienti ad affrontare e contrastare una crisi che è anche, e soprattutto, culturale e di civiltà.
Una crisi che va affrontata, in un sistema-mondo sempre più interdipendente e interconnesso, con strategie “pensate” in chiave transnazionale (evidente il riferimento al ruolo dell’Unione Europea e della famosa (?) Comunità internazionale, ad oggi “entità” assolutamente inconsistenti e prive di identità, oltre che di strategie comuni):
1) riprogettando politiche di welfare e di coesione alla luce dei nuovi rischi sociali e delle nuove forme di precarietà;
2) definendo politiche per l’istruzione, la formazione e la ricerca;
3) stimolando le società a generare “anticorpi” in grado di rinsaldare i legami sociali (educazione alla cittadinanza, alla legalità, all’anticorruzione etc.), sempre più in sofferenza sia a causa dei valori individualistici ed egoistici dominanti, che per la mancanza di modelli culturali funzionali al “bene comune”: detto in altre parole, di un’etica condivisa;
3) puntando seriamente, e concretamente, sul cambiamento culturale che, lo ripeterò fino alla noia (e non mi stancherò mai di farlo), può avvenire esclusivamente nel lungo periodo e soltanto muovendo dalla centralità e dalla qualità dei processi educativi. È quella che chiamo (da anni) la “via obbligata”: tutti – non soltanto la politica – ne parlano, tutti sembrano essere d’accordo ma, almeno per ora, registro una consapevolezza soltanto “dichiarata”. Speriamo serva almeno ad accrescere questa awareness “dichiarata” rispetto all’importanza del “cambiamento culturale”…perché quella che stiamo vivendo è una crisi culturale, è una crisi che le numerose variabili e concause hanno reso una “crisi di civiltà”.
Una crisi che ci costringe ad interrogarci (e ad agire), in primo luogo, su cosa significhi essere “persone”, essere “cittadini” in questa società globale; che mette in discussione, radicalmente, la dimensione fondante della “fiducia” e il “nostro” paradigma della sicurezza; che ci obbliga a ripensare il modo di intendere e praticare i valori/principi della freedom And responsibility (concetti relazionali -> Dominici 1998, 2005); che ci spinge a ridefinire la nostra concezione di “rationality” e i codici, i modelli, le strategie da essa prodotti; una crisi così delicata che, al di là delle straordinarie scoperte scientifiche e dell’innovazione tecnologica, rimette in primo piano la questione della dignità umana e dei diritti umani e di cittadinanza (globale). La società ipercomplessa (Dominici 2003) richiede urgentemente un’educazione e una formazione alla complessità necessarie per provare a costruire insieme, nei “luoghi” deputati a questo, non soltanto Persone – Cittadini (cioè, le condizioni del “legame sociale”) e, successivamente, profili e competenze etc., ma anche, e soprattutto, un’etica condivisa della responsabilità e della comprensione, a maggior ragione in una fase storica così delicata, in cui il pericolo dello scontro tra civiltà (Huntington, 1996) sembra ripresentarsi, contemporaneamente all’affermarsi di nuove asimmetrie e forme di disuguaglianza, non riconducibili soltanto ad indicatori economici.
Per chi volesse approfondire, rinvio ad un mio articolo – Rivista scientifica Peer reviewed
La modernità complessa tra istanze di emancipazione e derive dell’individualismo: la comunicazione per il legame sociale
E sempre a proposito di #PensieroCritico e di #complessità, di educazione, di comunicazione, di controllo e imprevedibilità…
Concludo – ricordando Maturana, da sempre punto di riferimento essenziale (ma su questi temi la letteratura scientifica è davvero di qualità) – che dobbiamo essere consapevoli che l’educazione e la stessa politica sono momenti cruciali del processo inarrestabile di autopoiesi (autocostruzione) che segna la vita e la prassi degli esseri umani: e il sociale ha un fondamento anche emozionale e non soltanto razionale.
“Tutti i concetti e le affermazioni sui quali non abbiamo riflettuto e che accettiamo come se significassero qualcosa per il semplice fatto che tutti li capiscono, sono paraocchi. Sostenere che la ragione caratterizza l’essere umano è un paraocchi, e lo è perché ci lascia ciechi di fronte all’emozione, che viene sminuita come qualcosa di animalesco o come qualcosa che nega il razionale […] e non vediamo il reciproco e quotidiano legame tra ragione ed emozione che costituisce la nostra umana esistenza, e non ci rendiamo conto che ogni sistema razionale ha un fondamento emozionale”
“Parlare-conversare devono essere nati insieme come un modo di convivere che integra giovani e adulti, in uno stato di benessere, nella coordinazione degli atti di tale convivenza, nel piacere della condivisione e della partecipazione. Vale a dire che il nostro linguaggio deve essere sorto nella trasmissione da una generazione all’altra di un modo di convivere nel conversare […]”
“Se insegnare è insegnare a vivere, secondo la giusta massima di Jean-Jacques Rousseau, è necessario individuare le carenze e le lacune del nostro insegnamento attuale per affrontare problemi vitali come quello dell’errore, dell’illusione, della parzialità, della comprensione umana, delle incertezze che ogni esistenza comporta” (Edgar Morin)
NB:
Pubblicando idee, concetti, definizioni operative, ipotesi di lavoro e ricerca, studi e ricerche scelgo (da sempre) consapevolmente di espormi al rischio (purtroppo, sempre più frequente, anche quando si tratta di teorie e ricerche già pubblicate che, quasi puntualmente, non vengono citate…poi ci sono le eccezioni, appunto) di chi fa “copia e incolla”, di chi poggia la sua conoscenza (?) e le sue competenze sul lavoro di altri, di chi cita tutt* tranne quell* che realmente – diciamo così – l’hanno ispirat*… altrimenti emergerebbe la vera paternità. Ma la spinta a dialogare, condividere e includere mi spinge sempre ad andare oltre la “difesa” del mio lavoro (vita, passione): la “condivisione” non è soltanto “la” sfida della Società Interconnessa e del nuovo ecosistema, ma un modo di essere e agire, su cui non si può fingere…anche in Rete!
#Citate the Authors