The virtuous power of social networks and the discomfort of democracy

In un bel libro del 2011, Il disagio della democrazia, Carlo Galli  affronta il tema fondamentale della democrazia, parlando di un doppio tipo di “disagio”: a) un disagio soggettivo, legato ad un cittadino che, invece di partecipare e interessarsi, mostra disaffezione, indifferenza e accettazione passiva e acritica, quasi un imbarazzo per un regime di potere “morto” o, comunque, non in un buono stato di salute; 2) un disagio oggettivo, di tipo strutturale, legato all’inadeguatezza della democrazia e dei suoi istituti a mantenere i propri obiettivi umanistici (libertà, uguale dignità, uguali diritti etc.).

Ed è servendomi di questa immagine forte (Galli spiega magistralmente il problema), che intendo contestualizzare e argomentare l’iniziativa affascinante, per certi versi folle, ma terribilmente importante di #FOIA4Italy

Ci eravamo lasciati parlando di… “governo del potere pubblico in pubblico”…

Un percorso evolutivo lungo e complesso, quello della comunicazione pubblica  e, più in generale, della Pubblica Amministrazione in Italia (segnalo al riguardo due interessanti pubblicazioni: Post-comunicazione di Alessandro Papini e L’Amministrazione aperta di Enrico Carloni). Un cammino che, inizialmente, ha portato con sé una vera e propria rivoluzione culturale, tutt’altro che completata la cui matrice è (tuttora) costituita dalla Legge 241 del 1990 che, nonostante le molteplici criticità, ha di fatto costretto le pubbliche amministrazioni ad intraprendere la strada impegnativa (oltre che responsabile) della trasparenza e dell’accesso (prerequisiti fondamentali dei regimi democratici). Una fase che avrebbe dovuto segnare l’inizio della fine dei grandi apparati burocratici chiusi e inespugnabili. Ma così non è stato. Sono stati anni – lo ricordiamo – in cui tali dinamiche hanno ricevuto un’ulteriore accelerazione dai fatti di Tangentopoli: in quel contesto, proprio la perdita di credibilità e di fiducia registrata da parte delle istituzioni e della Politica, ha favorito e reso più urgente la richiesta di una Pubblica Amministrazione più trasparente che avesse la forza e l’autorevolezza di uscire dalla “torre d’avorio”, abbandonando la vecchia cultura burocratica fondata sul segreto e sul silenzio, per presentarsi come “sistema aperto” ai cittadini. Ora quei presupposti, non soltanto giuridici, hanno esaurito la loro spinta propulsiva e mostrano quotidianamente segnali di debolezza che si concretizzano in diritti fondamentali non pienamente rispettati o, peggio ancora, non riconosciuti. Ecco perché l’esigenza di un FOIA per l’Italia (per tutti gli approfondimenti, compresi quelli riguardanti la proposta di legge, rinvio al sito http://www.foia4italy.it/)

 

Dalla società civile per la società civile: un aspetto fondamentale, che va senz’altro sottolineato, nell’iniziativa #FOIA4Italy è legato alla sua nascita ed evoluzione: un concepimento avvenuto “dentro” la società civile, senza alcuna affiliazione politica; ben 32 associazioni e oltre 50 esperti che, da anni coinvolti su tali questioni, stanno lavorando per la definizione di: 1) una proposta di legge per un FOIA (Freedom of Information Act) italiano; 2) un manifesto che spieghi le ragioni profonde di tale proposta, una proposta dalle significative ricadute.

 

Con #FOIA4Italy, la società civile e, nello specifico, il mondo dell’associazionismo si mettono ancora una volta in gioco – come spesso accade nei momenti di difficoltà e di eccessiva rigidità dei sistemi di potere (e dei modelli culturali egemoni) – confermandosi preziosi “indicatori” della qualità di una cittadinanza attiva, e non subita, e di una democrazia che attraversa un momento, quanto meno, di difficoltà. Indicatori importanti sui quali, peraltro, non si registra ancora sufficiente consapevolezza, e non solo da parte della politica.

 

D’altra parte, la resistenza al cambiamento è sempre “culturale” (cultura politica e cultura della P.A.). Anche per questa ragione forte, occorre insistere per avere un FOIA italiano: è condizione necessaria per il ripensamento di un rapporto meno asimmetrico tra PA e cittadini. Ma, allo stesso tempo – lo ribadiamo con forza – è necessario lavorare in parallelo sulle risorse umane, sulle competenze, investendo sulla formazione e puntando alla ridefinizione di uno spazio del sapere e dell’agire pubblico, aperto e trasparente che fornisca, sia ai dipendenti della P.A. che ai cittadini, tutti gli strumenti necessari per esercitare i loro diritti e influenzare concretamente le decisioni che li riguardano. Ora, come già accennato, tutto ciò sembra ancora piuttosto lontano dal concretizzarsi, dal momento che le organizzazioni complesse (pubbliche e private) e le loro architetture, spesso, continuano ad essere progettate e realizzate non come “sistemi” (feedback e condivisione di informazioni/conoscenze/competenze) ma come “insiemi” di parti/settori/strutture, che si comportano come veri e propri compartimenti stagni, isolati e senza un’efficace strategia di comunicazione (coordinamento e condivisione).

 

Al contrario, nella nostra prospettiva d’analisi, comunicazione è organizzazione (2005) anche se occorre essere consapevoli e precisare che: 1) la tecnologia è certamente una variabile fondamentale ma non risolve da sola i problemi organizzativi se non viene supportata da altre azioni; (2) oltre alle problematiche strutturali del digital divide, occorre fare i conti con il “cultural divide”(e lo ripeteremo sempre…servono politiche di lungo periodo), e con una sfera pubblica costituita da cittadini, in molti casi, poco informati e interessati ai loro diritti e, ancor di più, ai loro doveri; dimensioni sottovalutate nelle loro profonde implicazioni che chiamano in causa educazione e istruzione.

 

Di conseguenza, il complesso processo di trasformazione in atto delle pubbliche amministrazioni, dell’azione amministrativa e, soprattutto, delle forme di democrazia, che ha come scopo essenziale quello di un’amministrazione condivisa del Pubblico, non si completerà fino a quando non sarà stata fatta opera di educazione alla partecipazione ed alla cittadinanza, attraverso azioni mirate che hanno una rilevanza strategica. Ancora una volta, la questione cruciale concerne le competenze e la formazione anche – e soprattutto – dei cittadini, senza i quali il processo comunicativo innescato è, e resterà, incompleto e sterile. Anche nella società delle Reti e del Web 2.0. Anche con un FOIA italiano!

 

E qualche tempo fa, sulla scia di studi e ricerche che conduco ormai da anni (ma, non ve lo nascondo, si tratta di passioni che vivo anche, e soprattutto, come persona), sono partito, in un mio contributo sempre per Nòva 24, da questo presupposto che considero – lo dico senza alcuna presunzione – un “dato di fatto”. Ve lo ripropongo, dedicandolo a tutt* coloro che hanno deciso di impegnarsi in questa impresa e di sostenerci, anche alimentando le dinamiche e i processi comunicativi in grado di incidere sul clima d’opinione (fuor di ogni retorica sulla democrazia diretta, sulla trasparenza e sulla orizzontalità del web, non possiamo non rilevare come la Rete risulti decisiva in tal senso):

 

«…la stretta, strettissima, correlazione esistente tra comunicazione (è bene chiarirlo, intesa come accesso, condivisione, trasparenza, ascolto, servizio) e cittadinanza (partecipe del bene comune), tra comunicazione e democrazia; ma anche tra democrazia e visibilità/pubblicità del potere. In particolare, non posso non fare riferimento a Norberto Bobbio (1995, 1*ed.1984) quando definisce il governo della democrazia “come il governo del potere pubblico in pubblico”, riconoscendo nella “pubblicità” – opposta al “segreto” – uno dei cardini fondamentali della democrazia. Tuttavia, pur nella loro riconosciuta, oltre che basilare, importanza, i principi di visibilità e pubblicità servono a garantire (almeno dovrebbero…) “informazione” da parte della Pubblica Amministrazione verso i cittadini, ma non contemplano l’opportunità della “comunicazione” per/con i medesimi (reciprocità – partecipazione – coinvolgimento); dal momento che la comunicazione – come proveremo ad argomentare – è un processo sociale complesso che implica accesso, trasparenza, condivisione, coinvolgimento, partecipazione (uno dei concetti-chiave è engagement). Tuttavia, non è inutile ribadirlo, affinché si verifichino (almeno) le condizioni dei principi/valori appena elencati (la loro traduzione operativa risulta ancora più complicata), è necessario che il processo comunicativo – sia a livello di comunicazione interpersonale che di comunicazione organizzativa e dei sistemi sociali (in questa caso dallo Stato ai cittadini -> sfera pubblica) – coinvolga cittadini (soprattutto) consapevoli con teste ben fatte (->ruolo strategico di scuola e istruzione), informati e competenti (non soltanto dal punto di vista “tecnico”) perché – mi si passi quello che può sembrare uno slogan ma, almeno per chi scrive, non lo è – si può essere “sudditi” anche in democrazia…non conoscendo i propri diritti/doveri (la linea di confine tra cittadinanza e sudditanza è estremamente sottile); non conoscendo gli strumenti e i canali; non essendo sufficientemente alfabetizzati e (appunto) competenti per partecipare attivamente alla costruzione di una sfera pubblica autonoma, in grado di fare pressione sulla politica e sul “Sovrano”(potere) e di incidere sui processi decisionali. Sull’importanza, in tal senso, del tessuto sociale, della qualità del capitale sociale, delle reti e dei movimenti, delle forme di cooperazione e associazionismo, che oggi trovano, nella Rete, l’infrastruttura e l’ecosistema fondamentale per autoriprodursi e intensificare i legami (-> mi viene in mente anche il concetto di autopoiesi) – rimando ad un post precedente. Da sottolineare, inoltre, come il riconoscimento del valore della trasparenza avvenuto, ormai definitivamente, non soltanto a livello legislativo, spinga sempre più le organizzazioni complesse (pubbliche e private) a ricercare una configurazione come “sistemi aperti”, in grado di gestire al meglio la complessità, appunto aprendosi all’ambiente: una complessità sempre legata ad una carenza o, comunque, ad una cattiva gestione della conoscenza. Di conseguenza, tali processi implicano un ripensamento complessivo dei modelli organizzativi, del concetto stesso di comunicazione e, più in generale, l’esigenza forte di quella che, più volte in passato, abbiamo evocato come new culture of communication. Allo stesso tempo, è urgente che cresca, sempre più rapidamente, la consapevolezza che il cambiamento, sociale e organizzativo, non viene e non può essere realizzato soltanto dall’innovazione tecnologica e/o da una migliore, e sempre più specifica, definizione del quadro normativo. Molto banalmente (anche se spesso, proprio per la sua apparente banalità, tale “principio” viene poco considerato), le persone, i gruppi, le comunità possono ostacolare – più o meno volontariamente – il cambiamento (si pensi al concetto di clima organizzativo)».

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