La rete Isfol Innovazione e inclusione sociale

 

Questo articolo di Pepe D. e Casentini P. è in corso di stampa in Arcuri F. (a cura di). Web 2.0, Network Society e inclusione sociale. Palinsesto, Roma, 2015

Introduzione

Il nostro modo di percepire il mondo, osserva Carlo Infante, è cambiato radicalmente nella misura in cui il web è diventato un nuovo spazio pubblico e si sono radicalmente modificati i rapporti tra spazio e tempo. L’innovazione dei rapporti tra spazio e tempo, all’interno delle reti immateriali, si riflette anche fuori, nel mondo reale, nel senso che cambiano i rapporti tra individui, tra individui e contesti di riferimento, tra individui e territori (Infante, 2013, p. 19).

“La nuova complessità di cui stiamo trattando riguarda la simultaneità delle informazioni, le loro connessioni combinatorie, le dinamiche della rete… dove le informazioni sono sempre più innervate alle relazioni” (Infante, 2013, p. 20). I nuovi media non sono solo strumenti,  ma rappresentano dei veri e propri ambienti nuovi. E’ da qui che può nascere anche un rinnovato rapporto con il territorio. “In questo senso, osserva Infante (2013, p. 21)sarà importante occuparsi di armonizzare il thesaurus delle nostre conoscenze con i sistemi della comunicazione multimediale” e con i contesti di vita.

La società contemporanea presenta dunque nuovi scenari caratterizzati da forti e significative interconnessioni sia tra le dinamiche relative ai sottosistemi che alle relazioni dell’intero sistema sociale con il mondo esterno. Così come accade nell’ambito della produzione e del lavoro, scrive Claudio Cipollini (2012), anche in quello degli interventi e della progettazione sociale, il passaggio dalla società industriale alla società postindustriale ci obbliga ad uscire da una logica lineare e ad abbracciare una logica sistemica. Proprio per questa ragione, qualsiasi progetto o intervento se vuole avere una possibilità di successo deve muoversi in una logica multidisciplinare e sistemica. Anche quando parliamo di progetti e di interventi per l’innovazione muoviamo dal presupposto che questi non possono riguardare una sola area di intervento, uno specifico settore di sviluppo e di crescita, ma un modello di sviluppo economico e sociale che interessa al tempo stesso l’istruzione, la formazione ed il lavoro; la pubblica amministrazione e le imprese private; l’esistenza dei giovani e quella degli adulti; la qualità della vita nei territori urbani ed extra urbani.

Rispetto a queste tematiche generali sull’innovazione sociale, un gruppo di ricercatori Isfol ha dato vita ad una rete di soggetti pubblici e privati promotori di progetti ed iniziative la cui natura innovativa appare legata proprio alla loro capacità di intervenire in maniera sistemica sui contesti e sui problemi di riferimento. La rete, che trova espressione nella Portlet Isfol www.isfol.it/temi/Inclusione_sociale/rete-innovazione-e-inclusione-sociale, raccoglie esperienze ed iniziative di Enti pubblici e privati, Università e Scuole, Associazioni e Cooperative sociali che si sono rivelati capaci grazie all’innovazione di promuovere concretamente dinamiche di inclusione in ambiti socialmente rilevanti quali l’occupazione soprattutto giovanile, la formazione, la digitalizzazione, la diffusione e la crescita delle conoscenze, la socialità e lo sport anche in riferimento a categorie della popolazione che vivono in condizioni di difficoltà o di disagio.
1. Innovazione, smart system e smart city

I processi di innovazione, nella Prospettiva degli Stati Generali dell’Innovazione (2013), definiscono una comunità nei termini di una ‘smart community’, vale a dire di una realtà caratterizzata dalla combinazione intelligente di diversi fattori: economia, mobilità, governance, vita, cittadini, ambiente. “Nella smart community le relazioni non si esauriscono nei confini fisici; la qualità della vita dei city-user è l’indicatore predominante e l’obiettivo principale; i servizi sono centrati sulle esigenze delle persone; le politiche sono caratterizzate da volontà di apertura e integrazione” (Stati generali dell’Innovazione, 2013). I processi di innovazione debbono riguardare in primo luogo le infrastrutture, i trasporti, gli scambi energetici, i sistemi di connessione reale e virtuale. Ma l’innovazione deve consentire altresì ampi spazi di crescita della società civile. In tal senso, solo una logica di bottom up può rendere possibile lo sviluppo di una comunità a partire dalla vita delle persone e dalle condizioni di disagio.

I principi per l’innovazione sopra delineati rispondono in ampia misura agli obiettivi posti dalla Strategia Europa 2020 e riguardano: una crescita intelligente, una crescita sostenibile e una crescita inclusiva. La scelta di porre al centro delle politiche dell’innovazione la qualità della vita ne comporta altre basate, a loro volta, su alcuni concetti fondamentali: la sostenibilità volta ad evitare lo sfruttamento eccessivo di risorse non rinnovabili; l’apertura intesa come possibilità di connessione tra dati, idee, proposte, progetti ed esperienze; la centralità territoriale che fa del territorio il fulcro delle politiche per l’innovazione.

Lo studioso Pelle Ehn nell’illustrare il concetto di “Design Thinking in the City” spiega come il termine “design non sia più inteso solo in riferimento all’oggetto ed alle sue forme” (Ehn, 2013). Questo termine non è più interessato solo alla produzione industriale, all’architettura e alla comunicazione visiva, ma si occupa ormai da diversi anni anche di problemi quali lo sviluppo internazionale, la sanità, il design dei servizi pubblici rafforzando la convinzione che per la risoluzione di questi problemi debbono attivarsi soprattutto le organizzazioni pubbliche ed i governi. Il Design Thinking, in relazione allo sviluppo delle smart city, deve andare dunque di pari passo con l’impegno pubblico. Esso rappresenta un modo intelligente per pensare a come le risorse possono funzionare meglio e guidare il cambiamento.

Il concetto di intelligenza, in riferimento alla definizione delle città, fa riferimento il più delle volte alle connessioni ad alta tecnologia, ai sensori, alla possibilità di trattare simultaneamente grandi quantità di dati. Questa definizione di smart city, osserva Tim Campbell (2013), non è però esaustiva perché lascia fuori altre dimensioni estremamente importanti legate all’infrastruttura immateriale di organizzazioni civiche, ai gruppi di quartiere, al mondo accademico e alle comunità imprenditoriali come attori e partner nel processo di gestione della città. Inoltre, le definizioni convenzionali di “smartness” ignorano spesso l’importante processo di apprendimento collettivo; vale a dire l’imponente volume di conoscenze e di saperi che si costruiscono e si scambiano sia all’interno della città che tra la città ed il mondo esterno. All’interno di questa prospettiva, le Smart city sono in grado di fare il miglior uso di strumenti tecnologici attivando un processo di apprendimento attraverso il quale nuove idee vengono catturate e adattate per uso locale.

Proprio grazie ai processi di apprendimento, crescita ed innovazione si costruisce una città intelligente intesa in una prospettiva sistemica; vale a dire “sia come struttura connettiva – aperta, consapevole e finalizzata – sia come struttura adattiva, capace di generare dati e conoscenza e di far evolvere i propri comportamenti. Il concetto di smart city sembra dunque ridefinirsi, da un punto di vista epistemologico, nei termini di un sistema auto-organizzatore o complesso dotato cioè di una forte vitalità interna, che ne definisce l’identità, l’autonomia e la creatività. Il sistema auto-organizzatore si configura come un sistema vitale che si adatta al proprio ambiente selezionando gli stimoli e costruendo le risposte, che esso ritiene più adeguate per vivere e per evolvere nel suo ambiente. Il sistema possiede una capacità cognitiva che gli consente di dare delle risposte attive alle influenze del mondo esterno, di reagire in maniera adeguata agli stimoli interni ed esterni mantenendo il suo equilibrio e portando avanti i suoi percorsi di evoluzione. “Il dominio cognitivo di un sistema autonomo, osserva dunque Mauro Ceruti, finisce per configurarsi come l’insieme delle relazioni in cui il sistema può entrare senza perdere la sua identità, cioè senza morire, se è un sistema vivente, o senza smettere di funzionare se è un sistema cognitivo individuale o sociale” (Ceruti, 1989, p. 201).

L’evoluzione del sistema non è determinata in maniera necessitante dagli inputs del mondo esterno ma è piuttosto il risultato di una costruzione: vale a dire dell’elaborazione di eventi singolari che il sistema incontra nel corso della sua storia. Ne emerge una concezione del sistema inteso come un processo biologico e dunque vitale, continuamente mutevole e continuamente rinnovantesi grazie alla sua capacità di confrontarsi con gli inputs del mondo esterno, di svilupparsi e di evolvere nella scelta delle risposte e delle soluzioni più adeguate a questi inputs e nell’esigenza di adattarsi alle mutevoli condizioni del mondo circostante.

Nella prospettiva di Charles Leadbeater la smart city rappresenta il risultato di una combinazione ideale tra due variabili: il sistema città e l’empatia. In particolare, Leadbeater illustra la possibilità di porre i tanti modelli di città nei diversi punti rilevabili all’interno dell’area disegnata dall’intersezione delle due variabili. Nella prospettiva dello studioso, la smart city si colloca proprio negli spazi caratterizzati simultaneamente da alti livelli di organizzazione sistemica e di empatia (Leadbeater, 2013). Le migliori città, spiega Leadbeater, sono progettate in modo che abbiano infrastrutture, trasporti, scambi energetici, sistemi di connessione reale e virtuale efficienti. Ma queste città debbono anche consentire lo sviluppo dei rapporti umani, di ampi spazi di convivialità e di possibilità di crescita della società civile. In tal senso ed in ultima analisi, solo una logica di bottom up può rendere realmente possibile lo sviluppo di una città a partire dalla vita delle persone, consentendo alla smart city di prendere forma e fiorire nelle sue molteplici dimensioni (Leadbeater, 2013).

Nel trattare il problema relativo alla riformulazione della città e dell’urbanistica, Flavia Marzano utilizza, ispirandosi a William J. Mitchell, il termine e-topia: termine che fa riferimento alla creazione di ambienti virtuali, di interazione e di connessioni elettroniche tra edifici e spazi urbani. Il termine e-topia, chiarisce la studiosa, ne include altri quali la dematerializzazione, cioè lo sviluppo digitale delle città che conduce alla virtualizzazione di molti spazi; la demobilizzazione grazie alla quale la rete consente di ripensare l’utilizzo degli spazi e quindi anche le possibilità di spostamento; il funzionamento “intelligente” degli spazi urbani e conseguente personalizzazione di massa, con edifici interconnessi tra loro, in modo da costituire una sorta di sistema nervoso urbano con sensori e componenti elettronici di vario tipo e funzionalità, tali anche da far sì che le esigenze specifiche degli abitanti possano essere soddisfatte grazie all’interazione tra persone e oggetti (Marzano, 2012).

“Siamo noi che diamo forma ai nostri edifici, ma sono gli edifici che poi modellano la nostra vita e la nostra cultura. L’uomo dà forma alle città, che a loro volta forgiano l’uomo. Attraverso questa citazione di Winston Churchill, Vincenzo Barbieri sottolinea come una smart city sia una città che consente di valorizzare le caratteristiche del territorio, le sue unicità sulla base degli obiettivi definiti a livello politico. Le città, egli osserva, devono essere in grado di valorizzare le proprie caratteristiche, le proprie unicità per poter attrarre cittadini, imprenditori, investitori (Barbieri, 2012). “Ogni città sedimenta al suo interno un’intelligenza collettiva che si stratifica nel tempo grazie alle tecnologie, le quali consentono ai cittadini di coordinarsi tra loro. Il capitale sociale, ambientale e fisico come strade, edifici, segnaletica, reti tecnologiche, dotazione ICT contribuiscono alla realizzazione di questo patrimonio che rappresenta l’infrastruttura su cui si poggia ogni città. Smart city è dunque un concetto complesso quasi filosofico che può essere espresso solo nel lungo periodo attraverso obiettivi chiari, strategie coerenti attraverso tecnologie adeguate in un continuo processo evolutivo…” (Barbieri, 2012).

“Il percorso per diventare una smart city, osserva Miriam Ruggiero (2012), è lungo e articolato perché ogni città ha una specifica condizione di partenza. Il punto di partenza per la costruzione della smart city è una profonda conoscenza della realtà locale, dei bisogni della collettività, delle criticità e della situazione che deve essere gestita. Per compiere il percorso verso la città intelligente, è necessario fare ricerca nei fattori e nelle tecnologie abilitanti, una ricerca interdisciplinare che si basi su forti competenze specifiche tecnologiche, economiche e sociali per arrivare alla definizione di una metodologia che possa sfruttare in modo coordinato tutte le competenze specifiche.

Gli obiettivi devono essere raggiungibili, quantificabili, condivisi tra tutti gli stakeholder e definiti nel tempo. Si deve poi passare all’elaborazione di un piano strategico e di una road map con una quantificazione degli investimenti e dei possibili ritorni e, infine, si deve costruire un sistema di indicatori per monitorare il progetto, “misurarne” le componenti, le lacune, i progressi, le tendenze positive, quelle negative e i passi che ancora restano da compiere. La misurabilità deve monitorare performance, efficacia e sostenibilità. Per fare questo la città deve investire su professionalità qualificate e competenti, che siano in grado di gestire processi innovativi, che abbiano capacità relazionali e che sappiano guardare lontano con interventi basati su un approccio complessivo e non occasionale.

“La realizzazione di una smart city è il risultato dell’impegno e della collaborazione di diversi soggetti pubblici e privati, che detengono la conoscenza, condividono processi, producono innovazione. È così che si costituisce una “task force sinergica in cui tutti (enti pubblici, aziende, cittadini, banche, istituti di ricerca, università, ecc.) concorrano ad individuare soluzioni per la città, frutto di partecipazione e intelligenza collettiva” (Ruggiero, 2013). Non esiste dunque un modello universale di smart city: si devono elaborare modelli innovativi, trasversali, realizzabili, misurabili, replicabili, flessibili e finanziabili, basati su caratteristiche intrinseche della città, su efficienza, crescita e vivibilità. È fondamentale poter bilanciare le due dinamiche – top down e bottom up – in modo da riuscire a ottenere i servizi migliori per le persone che vivono in città. Quindi è richiesta sia un’elevata capacità di valutare le singole situazioni mettendo in atto risposte specifiche, sia la capacità di elaborare protocolli, che riescano, successivamente, a prescindere dal particolare. Inoltre si deve uscire dai sistemi altamente qualificati ma verticali per entrare in un’ottica orizzontale, trasversale, che sappia coinvolgere tutti gli ambiti in modo integrato (IT, pianificazione territoriale, sociale, istruzione, ecc.) e che sappia ottimizzare costi e risorse.

Una smart city è una città senziente che conosce quello che ha e che prende decisioni sulla base di informazioni aggiornate, certe e condivise. La città intelligente è in grado di gestire una grande complessità di dati eterogeni. La città intelligente è un luogo dove dati cartografici digitalizzati vengono ‘mesciati’ e integrati sia con i dati rilevati dai commenti su Facebook o su Twitter sia con le informazioni provenienti da diversi soggetti pubblici – Comuni, Agenzia del Territorio, Camere di Commercio, Aziende dei servizi, ecc. -. L’integrazione di tali dati permette di ampliare le conoscenze e di ridurre i tempi di reazione rispetto all’accadere dei fatti sul territorio. Una smart city fa circolare la conoscenza e possiede un’intelligenza collettiva grazie alla quale è in grado di rispondere in qualche misura alle esigenze del territorio relativamente a diversi contesti – cittadini, lavoro, imprese e commercio, edilizia, patrimonio, strumenti urbanistici, imposte, verde, istruzione, strade e viabilità – e dei vari soggetti pubblici e privati che rappresentano il tessuto vitale della città (Ruggiero, 2013).

Città intelligenti quindi che dove migliore è il livello di qualità della vita, dove tutto (spazi urbani, trasporti) sono a misura d’uomo e agevolano lo svolgimento dei compiti dei cittadini, ot¬timizzando il tempo e le risorse. Il tutto salvaguardando l’ambiente. Sono cioè città che promuovono lo sviluppo sostenibile, il turi¬smo, la creatività e l’innovazione, premiando le iniziative strate¬giche e migliorative per il futuro.
Carlo Mochi Sismondi definisce “le città smart uno spazio urbano, ben diretto da una politica lungimirante, che affronta la sfida che la globalizzazione e la crisi economica pongono in ter¬mini di competitività e di sviluppo sostenibile con un’attenzione particolare alla coesione sociale, alla diffusione e disponibilità della conoscenza, alla creatività, alla libertà e mobilità effettiva¬mente fruibile, alla qualità dell’ambiente naturale e culturale” (2010).

Il termine ‘smart’, ricorda R. Panzarani, è utilizzato soprattutto in Nord America. “Ma noi crediamo che trovi in Europa una sua specificità per le pecu¬liari caratteristiche di gran parte delle città del Vecchio Continen¬te. Le città europee, e a maggior ragione le città italiane, in gran par¬te basate su una storia che affonda le sue radici almeno nel Me¬dioevo, hanno (o dovrebbero avere) infatti tratti comuni che tro¬vano il loro fondamento nel concetto di ‘comunità’ e che quindi implicano valori come tradizione, inclusione, partecipazione, so¬lidarietà. Questa declinazione urbana di quello che Rifkin ha chiamato European dream può essere più adeguata, rispetto ad un clima più spiccatamente competitivo, a creare un ecosistema favorevole per la crescita della creatività e della attrattività complessiva del¬la città” (Panzarani, 2013a, p. 34).

La crisi sta portando anche le città ad un ripensamento della pianificazione urbanistica ed alla riflessione strate-gica sullo sviluppo. Se questo è vero, conclude Panzarani (2013a, p. 34), possiamo ritenere che la costruzione di un Paese moderno, innovativo ed inclusivo non può che passare attraverso una dimensione urbana fatta a misura d’uomo.

2. Il modello di sviluppo integrato

Il concetto di sviluppo integrato è fortemente legato, in primo luogo, alla consapevolezza della stretta interazione esistente tra le diverse dimensioni della società contemporanea. All’interno di questa prospettiva, qualsiasi intervento sulla realtà storico-sociale per produrre effetti positivi deve incidere non su una sola dimensione specifica di riferimento come può esserlo il lavoro, la formazione, il territorio  ma su un insieme di dimensioni che caratterizzano in maniera sistemica quella realtà. Nella misura in cui il modello di sviluppo integrato riguarda contemporaneamente molteplici dimensioni, osserva Panzarani (2013b, p. 12), esso finisce per riguardare anche il sentimento di identità di quel territorio o di quella comunità. Proprio dalle strette interazioni esistenti tra sviluppo integrato e sentimento di identità di una comunità trae origine la possibilità dell’innovazione: intesa come possibilità di innescare dei cambiamenti sistemici che toccano diversi aspetti e coinvolgono diversi gruppi della popolazione compresi i gruppi e le categorie in condizioni di maggiore disagio o di maggiore emarginazione.

Proprio perché tocca simultaneamente diverse variabili, il concetto di sviluppo integrato ci riconduce inevitabilmente a considerare lo stretto legame esistente tra le dimensioni della knowledge society quali l’ambiente, l’individuo, il lavoro, le strutture, i servizi, la cultura e la formazione. Riguardo a queste specifiche problematiche, Roberto Panzarani propone il concetto di sense of community. Nella prospettiva di questo studioso, qualsiasi cambiamento sociale diventa rilevante e significativo nella misura in cui chiama in causa quel sentimento di identità che dà significato e spessore alle iniziative messe in atto. “Sia che si faccia una riforma fiscale, sanitaria o del lavoro, se una comunità non ha una sua identità tutti questi passaggi rischiano di essere artificiali e di non durare nel tempo” (Panzarani, 2013b, p. 12). Per questa ragione, oggi è molto difficile che siano i gruppi di potere o semplicemente delle leadership ad innescare o favorire questi cambiamenti. Esistono piuttosto forme di autorganizzazione, da parte di gruppi della popolazione, che si sostituiscono a quelli che dovrebbero essere gli organi di governance e che promuovono iniziative concrete a beneficio della popolazione stessa. Il senso di comunità che da sempre accompagna l’uomo oggi può acquisire un nuovo e particolare valore, nella misura in cui può consentire il passaggio ad un modello sociale basato più sulla collaborazione e sull’inclusione che non sull’individualismo e sulla competizione.

Nella società dell’informazione, un aspetto importante del cambiamento e dell’innovazione è rappresentato dalle nuove tecnologie anche se la componente tecnologica è imprescindibile dalla componente human. La dimensione tecnologica è rilevante solo nella misura in cui viene messa in relazione con i problemi di natura sociale. Secondo la prospettiva della Human Smart City, la città è ‘intelligente’ nella misura in cui mette insieme prima di tutto diversi attori e il loro potenziale umano. La smart city non è né fine a sé stessa né una mera applicazione dell’innovazione tecnologica, bensì un percorso mirato a rendere la vita delle persone migliore, a semplificarla, a consentire una focalizzazione verso il benessere complessivo, a creare opportunità di lavoro e di inserimento per i cittadini nel tessuto della città stessa.

Il tema del rapporto tra innovazione sociale ed inclusione con particolare riferimento all’inclusione di gruppi svantaggiati, di categorie della popolazione che si trovano in particolari condizioni di difficoltà o di disagio è strettamente legato al tema dello sviluppo. Sviluppo riferito alle città, ai territori, agli insediamenti umani e comunque sempre più inteso oggi come sviluppo integrato. Come scrive G. Coronas (2013, p. 9), “la stessa Unione Europea ha sottolineato la necessità di avere un approccio integrato per la realizzazione di uno sviluppo urbano sostenibile… la città del futuro deve essere contemporaneamente luogo di verde, di rinascita ecologica e ambientale, un posto attrattivo e un motore della crescita economica”.

Fonti rinnovabili, efficacia energetica e sviluppo sostenibile: sono queste le parole d’ordine delle smart cities: La natura intelligente di queste città non è legata solo all’efficienza dei sistemi strutturali, infrastrutturali, legati all’ambiente, ai servizi, alla vita ed al lavoro dei cittadini, alle relazioni tra gli individui e tra gli individui e la città stessa. I problemi legati ai processi di evoluzione verso la smart city sembrano chiamare in causa in primo luogo ed in termini sostanziali l’evoluzione di modelli educativi, formativi e culturali, le possibilità di crescita che esse offrono agli spazi della società civile e la possibilità di mettere le innovazioni sociali e tecnologiche al servizio del cittadino per rispondere ai suoi bisogni e al suo benessere.

Dunque è importante la visione di una città che si ‘autorganizza’ e che fa propri i significati di ‘globalizzazione intelligente’ e ‘beni comuni’. I beni comuni possono essere descritti come beni e risorse che gruppi di individui condividono e sfruttano insieme, in modi diversi a seconda del luogo in cui si trovano a vivere. Si possono distinguere al riguardo tre tipologie di beni comuni (Panzarani, 2013b, pp. 87 – 88) :

• i beni comuni tradizionali che una determinata comunità gode per diritto consuetudinario (prati, pascoli, boschi, aree di pesca ecc.) Questa categoria di beni è definita come proprietà collettiva.

• i beni globali (aria, acqua, foreste, la biodiversità, gli oceani, lo spazio, le risorse non rinnovabili).

• i new commons individuabili nella cultura, nelle vie di comunicazione (dalle autostrade alla rete Internet), nei parcheggi, nelle aree verdi della città, nei servizi pubblici di acqua, luce, trasporti, nelle case, nella sanità e nella scuola, il diritto alla sicurezza e alla pace.

“E proprio sui commons si concentrano oggi le aspirazioni di molte popolazioni, in gran parte dei paesi in via di sviluppo e di piccole comunità per avviare una gestione democratica e sostenibile del loro territorio” (Panzarani, 2013b, p. 88). I commons sono una pratica politica, una forma dell’agire collettivo. La politica dei beni comuni tende a diffondere il potere tra molti individui anziché concentrarlo nelle mani di pochi. I beni comuni si conquistano, non sono mai dati. Esistono quando un insieme rilevante di persone se ne riappropria fisicamente, se ne prende cura e li restituisce alla collettività. ‘Comune’ è diverso da ‘pubblico’. Non è attraverso il controllo dello Stato e delle amministrazioni che si generano democrazia reale e gestione partecipata: i beni comuni non si amministrano dall’alto, si autogovernano. Al centro di tutto questo discorso troviamo dunque la persona, l’individuo che costruisce modelli di conoscenza e di azione in modo da potersi adattare e riadattare al proprio contesto naturale e sociale di riferimento.

Promuovere l’integrazione di tutti, in particolare delle persone che si trovano ai margini della società, è uno degli obiettivi principali della Strategia Europa 2020. Anche nei paesi dell’Unione Europea infatti sono ancora molti i gruppi socialmente esclusi, per numerosi motivi: sono privi di competenze specializzate, vivono in zone sfavorite con accesso limitato ai servizi, hanno problemi di salute, sono o sono stati in condizioni di detenzione, sono portatori di disabilità, sono immigrati o appartengono a minoranze etniche. Il problema dell’esclusione sociale riguarda anche e in maniera estremamente significativa l’occupazione. L’occupazione rappresenta infatti un fattore essenziale per la promozione dell’inclusione sociale e le persone in condizioni di disagio o di difficoltà necessitano di strategie di inclusione sistemiche ed incisive.

La politica di coesione si avvia a diventare la politica d’investimento per eccellenza dell’Unione Europea e viene rigorosamente allineata agli obiettivi della Strategia Europa 2020. Questa strategia presenta tre priorità: crescita intelligente relativa ad un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione; crescita sostenibile relativa ad un’economia efficiente sotto il profilo delle risorse ambientali; crescita inclusiva tesa ad un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale.

Secondo la strategia europea entro il 2020 il 75% delle persone deve avere un lavoro; il 3% del PIL deve essere investito in R&S. Debbono essere raggiunti i traguardi 20/20/20 in materia di clima ed energia; il tasso di abbandono scolastico deve essere inferiore al 10% e almeno il 40% dei giovani deve essere laureato; 20 milioni di persone in meno devono essere a rischio di povertà. Si tratta di un modello multifattoriale e multicircolare che investe allo stesso tempo più campi d’intervento: la centralità della persona, il rispetto dell’ambiente, lo sviluppo sostenibile, la crescita del lavoro, l’innalzamento dei livelli di istruzione e di competenza della popolazione.

E proprio negli spazi creati da questo modello di sviluppo multifattoriale e multicircolare che nascono possibilità di inclusione anche per i gruppi che si trovano in condizioni di maggiori difficoltà come i giovani, gli individui  che vivono in condizioni di marginalità o disagio fisico, psichico e sociale. Lo sviluppo della Green economy rappresenta un esempio significativo di questo possibile virtuosismo. “In Europa più di quarantamila poveri, disabili, malati mentali ed ex detenuti sono stati impiegati nel settore del riuso il cui obiettivo è quello di creare lavoro attraverso le attività di raccolta, selezione, riparazione, messa in vendita e in alcuni casi servizio post vendita di materiale. E’ significativo citare al riguardo, osserva Paolo Ferraresi (2013), il network Rreuse. Rreuse comprende 22 membri in 12 paesi europei che oltre a 40mila dipendenti può contare su 110mila volontari. Alcuni dei membri di Rreuse sono già dei veri e propri giganti, come la catena Kringwinkel nelle Fiandre, in Belgio. “I Kringwinkel sono conosciuti sul territorio e hanno 118 negozi, 4 milioni di clienti all’anno e quasi cinquemila impiegati, con un giro d’affari di 35 milioni di euro. È stato calcolato che generano circa 1,5 euro per kg di materiale venduto” (Ferraresi, 2013).
3. L’innovazione sociale

“Si ha innovazione sociale, scrive Roberto Panzarani citando Geoff Mulgan (Panzarani, 2013a, p. 30), quando nuove idee che funzionano danno soluzioni a bisogni sociali ancora insoddisfatti”. Ma l’aggettivo ‘sociale’ ha anche un altro significato nel senso che indica il ruo¬lo attivo di persone (consumatori, cittadini, ma anche istituzioni e organizzazioni) nella realizzazione concreta dei processi di in¬novazione. In realtà l’innovazione sociale sembra essere una parola-ombrello dentro cui possono stare tantissime cose: ogni innovazione in campo tecnologico, economico o nei sistemi produttivi può produr¬re degli effetti sociali, cioè dei cambiamenti duraturi nelle rela¬zioni sociali e nel comportamento delle persone nella misura in cui porta all’utilizzo sociale di una qualunque innovazione tecnologica, economica e produtti¬va.

L’innovazione abbraccia diversi settori e si declina diversamente a seconda dei contesti. L’innovazione sociale, osserva Riccardo Maiolini (2013, p. 31), cerca di rispondere ad alcune domande specifiche, che riguardano i principali problemi delle società contemporanee, e nel fare questo cerca di porre le basi per nuove forme di pensiero e nuove tipologie di innovazione. Siccome alla maggior parte dei problemi sociali dei nostri tempi, secondo gli autori, non c’è ancora una risposta efficace, è necessario dibattere su come si crea innovazione sociale, in maniera tale che, una volta raffinato il processo di innovazione, si possa lavorare per ottenere soluzioni efficaci. “Il recupero del ruolo degli individui nella gestione dei processi di innovazione sposta l’attenzione da un modello di innovazione trainato dalla tecnologia (technology push) verso un modello nel quale le richieste partono dal basso (demand pull) e cerca soluzioni in grado di soddisfare un ampio numero di soggetti. In questo senso, nell’ultimo periodo, con il termine innovazione sociale, si fa riferimento a sistemi creativi, non più indi¬viduali ma collettivi, dove è necessario fissare delle forme di autoregola¬mentazione dei processi creativi, che rendano questo modello pluralistico in grado di fornire soluzioni ottimali (Plechero e Rullani cit. da R. Maiolini, 2013, p. 24).

L’innovazione sociale si pone, quindi, come una nuova frontiera di ricerca nella quale esplorare innanzitutto le variabili esplicative: dalle modalità di creazione di nuove forme di innovazione, al ruolo e al rapporto tra persone e tecnologia, si¬no alle modalità di disseminazione e utilizzo attraverso nuovi modelli di business, forme finanziarie e non da ultimo, il ruolo dell’attore pubblico nel favorire e permettere lo sviluppo del fenomeno su larga scala.

Da una prima analisi su quanto prodotto dal network mondiale della social innovation Exchange, afferente a Nesta Foundation, emergono una serie di ambiti di applicazione di processi di Innovazione Sociale, in particolare su specifici temi (Maiolini, 2013, pp. 26 – 27):

• Ambiente, sostenibilità e cambiamenti climatici;
• Democrazia e processi di partecipazione;
• Design / progettualità / facilitazione di processi creativi;
• Forme di welfare e assistenza sociale;
• Gestione dei flussi migratori;
• Gestione del c.d. gender management e diversity management;
• Governo e politiche pubbliche;
• Imprenditorialità sociale;
• Nuove forme di finanza e rapporto con la filantropia;
• Salute e cura del benessere;
• Reti e collaborazioni;
• Rapporto tra comunità e spazi abitativi;
• Modelli di volontariato e assistenza.

Da questa classificazione emerge il carattere di strumento sociale dell’innovazione che deve essere in grado di rispondere adeguatamente sia ai bisogni collettivi che alle esigenze del territorio in cui si sviluppa. L’innovazione sociale rappresenta un fenomeno nel contempo complesso, affascinante e rilevante per un sistema economico e sociale come quello italiano, soprattutto perché attraverso lo studio del fenomeno dell’innovazione sociale si possono ottenere delle piattaforme di lavoro utili allo sviluppo di nuove proposte e risposte a fabbisogni sociali rile¬vanti per il Paese. L’Unione europea sta puntando a uno sviluppo delle attività di ricerca, in grado di cogliere la multidisciplinarietà dei fenomeni, attraverso il coinvolgimento di un numero maggiore di soggetti. L’approccio è quello che vede sempre più strette collaborazioni tra le organizzazioni e i loro stakeholder, in maniera da garantire che una molteplicità di obiettivi e interessi porti a risultati utili per l’intera comunità.

“In questa nuova ottica si individuano le basi che apriranno nei prossi¬mi anni nuove opportunità di ricerca e di business a livello europeo. Infatti, le opportunità sociali e le sfide ambientali, per esempio, devono essere affrontare in maniera tale da rappresentare delle concrete opportunità di business per le organizzazioni, in maniera tale da favorire un adeguato livello di attenzione. Il tema dell’innovazione sociale rappresenta un importante banco di lavoro su alcuni temi fondamentali quali: lo sviluppo economico, la disoccupazione; l’invecchiamento della popolazione; i cambiamenti climatici; l’innovazione nel settore pubblico, il divario sociale (Maiolini, 2013, p. 34)”.

Il tema dell’innovazione sociale è sicuramente un tema di frontiera e rappresenta un campo quasi inesplorato per ricercatori e studiosi di tutto il mondo. In particolare questo tema è affrontato attualmente attraverso alcuni filoni di ricerca classici. “Si trovano in letteratura riflessioni sul tema dell’ innovazione a partire da studi di tipo economico (in particolare sul tema della finanza pubblica e del finanziamento dei servizi pubblici), studi di management e innovazione (diffusione della conoscenza e di nuovi modelli di innovazione) e studi di carattere sociologico e politologico (studi sui movimenti sociali e nuove forme di aggregazione). Nell’unire i diversi filoni emerge un primo elemento che distingue e caratterizza l’innovazione sociale come modello ibrido. L’unione della dimensione economico-manageriale a quella di carattere pubblico-ge¬stionale determina il fatto che l’innovazione non deve essere motivata dalla massimizzazione dei profitti di chi ne trae beneficio, ma deve essere un fine per favorire un processo di miglioramento incrementale a livello generale” (Maiolini, 2013, pp. 38 – 39). In tal senso perché l’innovazione sociale sia tale deve coinvolgere e produrre effetti positivi sugli individui. “Il miglioramento, conclude Maiolini (2013, p. 39) deve essere inteso in termini di benessere collettivo e non soltanto di alcune categorie o network di individui ed organizzazioni. Il benessere deve essere quindi un benessere diffuso e collettivo. A partire da questa prospettiva si arriva a una prima definizione secondo la quale l’innovazione sociale è legata al raggiungimento di obiettivi socialmente rilevanti”.

L’innovazione sociale non può mai dipendere dunque dai singoli soggetti, ma da un mix di competenze di vari gruppi che agiscono in maniera collettiva rispetto all’attuazione dei diversi interventi. L’innovazione si caratterizza, quindi, per la possibilità di sfruttare network, reti e gruppi di soggetti per facilitare un processo di co-creazione e di gestione partecipata delle decisioni.

Il concetto di innovazione è dunque fortemente legato a concetti quali territorio, smart city e smart comunity, bottom up. I processi di innovazione nascono e si realizzano nei diversi livelli rappresentati da attori appartenenti al mondo pubblico, a quello privato e alle organizzazioni del terzo settore. “Un’ottica di per sé innovativa perché presuppone che non si possa parlare di cabine di regia senza tener conto della vitalità dei tessuti produttivi e relazionali, e viceversa. Si tratta dunque di un passaggio dalla leadership individuale alla leadership diffusa, nel quale il gioco di squadra diviene fondamentale. E se il valore primario risiede nei legami tra le persone, l’intelligenza cittadina si misura allora dalla capacità dell’amministrazione di creare le condizioni per la generazione di laboratori e nel saperne mettere a valore i risultati: siano essi efficaci modelli di gestione della conflittualità, servizi pubblici innovativi o prodotti di nuova generazione in grado di trainare lo sviluppo economico di un territorio” (Forghieri e Mochi Sismondi, 2013).

Le nuove tecnologie, la partecipazione dal basso e l’innovazione possono diventare, nella prospettiva di Forghieri e Mochi Sismondi, i nuovi driver dello sviluppo. Ed i processi dell’innovazione e dello sviluppo non possono non chiamare in causa a loro volta ed al tempo stesso variabili quali la dimensione sociale, la dimensione tecnologica, la governance, la dimensione culturale e la dimensione ambientale. In questo senso, chiarisce Maiolini (2013, p. 51), emerge fortemente il concetto di comunità intesa come insieme di soggetti e individui che non solo condividono uno spazio e delle risorse, ma si riconoscono in principi e valori condivisi. “In questo modo si chiarisce che gli obiettivi verso cui tende un fenomeno di innovazione sociale cambiano in base al contesto culturale, al momento storico ed ai soggetti collettiva¬mente coinvolti”. L’innovazione sociale tende dunque sempre più a configurarsi nei termini dell’utilizzo sociale di una qualunque innovazione tecnologica, economica e produttiva che cambia il modo di interagire  e di comportarsi dei cittadini coinvolti.

Nell’inserto Nova de II Sole240re del luglio 2009 si legge che uno dei casi più interessanti e sottovalutati di innovazione è rappresentato dall’impresa sociale. “L’Italia è il pa¬ese leader europeo sia per la massa critica, sia per le innovazioni introdot¬te. Basti pensare che intorno al binomio welfare e impresa socia¬le sono sorte, in meno di un quanto di secolo, oltre 7.300 coope¬rative sociali che erogano servizi socio assistenziali sanitari ed educativi a oltre 3,3 milioni di cittadini e organizzano attività di integrazione al lavoro per almeno 3 mila lavoratori svantaggiati. Il tutto per un valore occupazionale di circa 2 3 mila addetti e un giro d’affari di 6,3 miliardi di euro. Ma oltre a questo consistente ‘zoccolo duro’ si segnala un potenziale di sviluppo significativo sia in nuovi settori (cultura, formazione, turismo, ecc.), sia attra¬verso diversi schemi giuridici e organizzativi di origine non profit (ci sono almeno duemila fondazioni operative che agiscono, nei fatti, come imprese sociali) e anche commerciale (assumendo al¬cuni vincoli ‘sociali’: con distribuzione degli utili, coinvolgimen¬to degli stakeholders, ecc.)” (Panzarani, 2013a, p 31).

Il concetto di innovazione, non fa riferimento dunque solo alle tecnologie, ai sensori, alla possibilità di trattare simultaneamente grandi quantità di dati. Non fa nemmeno riferimento soltanto alle infrastrutture materiali ed immateriali; alle iniziative dei cittadini e delle amministrazioni pubbliche; ad attività intraprese dalle comunità imprenditoriali o dal mondo accademico. Perché ci sia innovazione appare fondamentale il processo di apprendimento collettivo, l’universo di conoscenze e di saperi che si scambiano e si costruiscono nella vita degli uomini e nella storia delle società. All’interno di una generale prospettiva, dunque, il percorso di progettazione e di costruzione della città intelligente chiama in causa non solo fattori strutturali, infrastrutturali, legati all’ambiente, ai servizi, alla vita ed al lavoro dei cittadini, alle relazioni tra gli individui e tra gli individui e la città stessa. I problemi legati ai processi di evoluzione verso la smart city sembrano chiamare in causa in primo luogo ed in termini sostanziali l’evoluzione di modelli educativi, formativi e culturali. E’ impossibile concepire una qualsiasi forma di evoluzione della società della conoscenza prescindendo dall’importanza che, all’interno di questa società, rivestono modelli di conoscenza e di apprendimento che accompagnano l’individuo durante tutto il corso della sua vita e che permeano i diversi momenti della sua vita.

L’importanza riconosciuta ai modelli di apprendimento e di formazione lifelong e lifewide rappresenta, in primo luogo, uno strumento per fronteggiare la complessità, favorire la democrazia e l’inclusione sociale. La capacità, da parte di ogni individuo, di saper costruire sempre nuove conoscenze e di rimettere in gioco e ridefinire continuamente le proprie competenze sono essenziali affinché questo individuo sia in grado di adattarsi e riadattarsi alle condizioni di estrema mutevolezza della società contemporanea. Questa stessa capacità di adattamento continuo è essenziale affinché, in un momento di grave crisi economica quale è quello attuale, l’individuo sia in grado di restare o di rientrare nel mercato del lavoro.

Nel momento in cui il lifelong learning viene posto come un punto di vista attraverso il quale comprendere la complessità sociale e favorire lo sviluppo democratico, la conoscenza e la formazione diventano la “condizione per i diritti di cittadinanza, strumento di convivenza civile e risorsa per lo sviluppo economico-sociale dei Paesi” (Alberici, 2008). “Se è vero infatti che oggi, di fronte alle grandi sfide della vita, fame, pace, lavoro, inclusione/esclusione, solidarietà, libertà, equità è necessario puntare sullo sviluppo umano e sulla possibilità, per un numero sempre maggiore di donne e di uomini, di saper produrre pensiero riflessivo, divergente, innovativo, allora la formazione cambia radicalmente natura, genere, e diviene un processo finalizzato sempre più alla crescita di soggetti responsabili e autonomi, proattivi. Ne deriva la necessità di puntare sulla formazione ‘for all’, come valorizzazione delle risorse umane, facendo leva sulla centralità del soggetto, sui suoi saperi e sulle sue competenze di vita e di lavoro, sulla sua riflessività, sulle capacità sociali e di relazione, sulla responsabilità, su quelle che possiamo definire come le competenze strategiche per la vita in quanto è con il loro possesso, sviluppo e crescita lifelong che donne e uomini divengono capaci di affermare i loro diritti di cittadinanza sostanziale” (Alberici, 2008).
La rete Isfol “Innovazione e inclusione sociale”

Il Portlet Isfol su “Innovazione e inclusione sociale” è situato nel sito di Istituto ed è nato nel 2014 con l’obiettivo di raccogliere e descrivere iniziative di Enti pubblici e privati, Università e Scuole, Associazioni e Cooperative sociali che hanno dato vita a dinamiche di inclusione sociale grazie alla realizzazione di esperienze innovative. In primo luogo, la rete raccoglie e mette in collegamento tra loro studi e ricerche sull’innovazione come fattore di sviluppo e di inclusione. In secondo luogo, essa presenta e diffonde progetti innovativi che concretamente hanno dato vita a dinamiche di inclusione nell’ambito del lavoro  e dell’istruzione, della formazione, della digitalizzazione e della costruzione di reti sociali, della socialità e dello sport anche in riferimento a categorie della popolazione che vivono in condizioni di difficoltà o di disagio. Le esperienze descritte nella rete sono riconducibili ad alcune tematiche fondamentali dell’innovazione e dell’inclusione sociale:

• Formazione e orientamento al lavoro
• Creazione di start up giovanili
• Conoscenze e competenze digitali
• Sostegno e microcredito per il lavoro e l’inclusione
• Reti per l’innovazione
• Sport e socialità per l’integrazione

Per ciò che riguarda le esperienze di formazione ed orientamento al lavoro la rete presenta, tra le altre, il Centro Portafuturo, realizzato dalla Provincia di Roma nel 2011, ed il Portale Cliclavoro, realizzato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nel 2012. Portafuturo e Cliclavoro rappresentano due nodi cruciali di una rete, territoriale e virtuale, di informazione, formazione e orientamento al lavoro rivolta alle fasce più sensibili della popolazione: giovani e adulti disoccupati, disabili, migranti, occupati che vogliono cambiare lavoro.

Per ciò che riguarda la funzione strategica rivestito da Portafuturo, è significativo sottolineare che Portafuturo si situa non casualmente in un quartiere storico di Roma frequentato soprattutto da giovani: il quartiere Testaccio. La particolarità di questo Centro è legata al fatto che esso, unico in Italia, coniuga formazione e orientamento, ricerca del lavoro dipendente e promozione dell’auto-imprenditorialità, attenzione alla persona e digitalizzazione dei processi, analisi del territorio e delle aziende.

Il portale Cliclavoro è stato progettato e sviluppato dal Ministero del Lavo¬ro e delle Politiche Sociali, nel 2012, insieme ad altri soggetti pubbli¬ci e privati quali le Regioni e le Province, l’INPS, il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca Scientifica e oltre 200 soggetti privati di in¬termediazione. In un momento di grave crisi economica, il portale cerca di rispondere alle domande legate quotidianamente alla ricerca ed all’offerta di lavoro ponendosi in una prospettiva sistemica e delineando quindi una stretta interazione tra i termini: occupabilità, rete territoriale, informazione, digitalizzazione, monitoraggio. “All’interno di questa prospettiva il termine informazione rappresenta un punto di partenza essenziale  rispetto al problema dell’occupazione giovanile, si tratta di informazione erogata dai CPI, dai Comuni, dagli sportelli e dalle reti di informazione. Il termine informazione chiama in causa il termine rete territoriale nella misura in cui il problema dell’occupabilità e dell’occupabilità giovanile può essere affrontato cercando di comprendere e di porre in relazione tra loro le dinamiche della rete territoriale. Con il termine rete, infine, non si può far riferimento solo alla rete territoriale ma anche e soprattutto alla rete digitale che consente di diffondere informazioni, buone prassi e modelli per poter affrontare il problema dell’occupabilità” (Strano, 2014).

Tramite Cliclavoro, i cittadini possono gestire il proprio curriculum e i dati personali, candidarsi alle offerte di lavoro, svolgere corsi in e-learning e moduli di orientamento al lavoro; le aziende possono ricercare candidati disponibili, gestire le offerte di lavoro inserite, usufruire del servizio per l’invio delle Comunicazioni Obbligatorie (CO); gli operatori pubblici e privati possono operare in qualità di intermediari tra cittadini e aziende. Il sistema Cliclavoro offre diverse sezioni tematiche informative ed è collegato anche con la rete europea Eures per controllare domanda e offerta di lavoro nei Paesi dell’Unione europea. Grazie al raccordo con le Regioni, Cliclavoro si propone di monitorare, prevedere e anticipare i trend occupazionali e seguire la mobilità interna ed esterna al Paese; la funzione Trova Sportello permette poi agli utenti di cercare e localizzare gli uffici per il lavoro sul territorio.Proprio nell’intento di attirare i più giovani, il portale è presente anche sui principali social network come Facebook, Twitter, Linkedin, dispone di un blog ed è accessibile anche tramite dispositivi mobili grazie alle App iCliclavoro e iCliclavoro social.

In merito al tema della creazione di start up giovanili il Portale Isfol presenta Luiss EnLabs e H-Farm. Ambedue questi incubatori tendono a coniugare in maniera del tutto inedita il passato con il futuro, il localismo con la globalizzazione, la contingenza legata ai territori che occupano, con i loro vincoli e significati, con gli ampi orizzonti di aspettative ed obiettivi che intendono raggiungere.

Il Centro Luiss EnLabs è una vera e propria fabbrica di start up giovanili. E’ stato inaugurato il 4 aprile del 2013 a Roma, dentro la stazione Termini: la grande stazione della capitale, luogo di partenze e luogo di arrivi, di saluti, di addii e di ritorni ha voluto così assumere le vesti, per molti giovani, di un luogo di rinascita di nuovi progetti e speranze. Il Centro è nato dalla joint venture tra l’università Luiss ed EnLabs, uno dei più importanti incubatori d’impresa in Italia, con la collaborazione di Wind. La presentazione del Centro è stata l’occasione in cui protagonisti dell’innovazione si sono incontrati per uno scambio di vedute sul mondo dell’imprenditoria. Vi hanno partecipato attivamente esponenti delle istituzioni, dell’industria, della cultura e dell’informazione. A presentare il progetto c’era anche il direttore dell’Università Luiss Pierluigi Celli.

Luiss EnLabs è aperto non solo agli studenti Luiss, ma a quelli provenienti dalle Università di tutta Italia, con particolare attenzione per chi arriva da facoltà come medicina, ingegneria, fisica, matematica, informatica, biologia. Luiss EnLabs è uno spazio di oltre 1500 metri quadri – messo a disposizione dal Gruppo Ferrovie dello Stato – dotato di 120 postazioni di lavoro. Mini uffici, scrivanie e connessione a banda larga all’interno di box trasparenti, che a pieno regime possono accogliere fino a 50 startup, le quali hanno la possibilità di avviare le loro attività beneficiando della contaminazione positiva facilitata proprio dalla vicinanza offerta dall’incubatore, in una location strategica, architettonicamente pregiata e perfettamente attrezzata dal punto di vista tecnologico.

H-Farm nasce su iniziativa di Riccardo Donadon, nel 2005, all’interno di una storica tenuta agricola che si affaccia sulla laguna di Venezia. Si tratta di una piattaforma digitale nata con l’obiettivo di aiutare giovani imprenditori nel lancio delle loro iniziative basate su modelli di business innovativi nel settore internet e supportare la trasformazione delle aziende italiane in un’ottica digitale. Il perodo di incubazione delle imprese create è di 36 mesi. Nei primi 9 anni, H-Farm ha investito circa € 19.2 milioni in 67 startup, creando oltre 392 nuovi posti di lavoro. Tra il 2015-2020 sono previsti investimenti per ulteriori 10 milioni di euro. H-Farm costituisce un innovativo incubatore di impresa teso a coniugare  il passato contadino con  il futuro digitale, l’idea della fattoria con le nuove tecnologie e con la grande rilevanza riconosciuta alla componente human: la H che forma il nome del progetto significa proprio human.

Il Portlet Isfol presenta anche molte esperienze che promuovono innovazione ed inclusione proprio a partire dalla costruzione di reti per la crescita e la diffusione delle informazioni e delle conoscenze, dei processi di digitalizzazione e dei modelli di innovazione che contribuiscono a migliorare la competenze e le condizioni di vita dei cittadini nei loro contesti fisici e simbolici di riferimento.

Il Laboratorio Labsus è stato creato nel 2006 con l’obiettivo di promuovere e diffondere un nuovo modello di società basato sul principio di sussidiarietà orizzontale. Labsus, presieduto da Gregorio Arena, è un’associazione animata da volontari che, attraverso un rivista on-line, propone un nuovo modo di intendere il rapporto fra istituzioni e cittadini. L’attività di Labsus si basa infatti sulla constatazione che i cittadini non sono solo portatori di bisogni ma anche di capacità che possono essere messe a disposizione della comunità per dare vita all’amministrazione condivisa, un nuovo modello di amministrazione, fondato sul rapporto di collaborazione tra cittadini e pubblica amministrazione per la cura dei beni comuni materiali e immateriali.

Labsus è un vero e proprio Laboratorio dove si elaborano idee; si descrivono iniziative realizzate da città ed associazioni; si raccolgono materiali, provvedimenti e regolamenti relativi alla cura dei beni comuni; si segnalano nuove e significative esperienze. Questa raccolta di informazioni viene aggiornata continuamente dal Sito di Labsus relativamente alle diverse aree geografiche ed alle diverse dimensioni socio-culturali della realtà italiana. Labsus è impegnato nella diffusione di modelli e pratiche di cittadinanza attiva, dei rapporti di reciprocità, cooperazione e collaborazione, della responsabilità sociale, del senso civico e degli stili di vita sostenibili.

Gli Stati Generali dell’Innovazione rappresentano un’associazione di promozione sociale senza scopo di lucro. Sono nati, nel 2011, dall’iniziativa di alcune associazioni, movimenti, aziende e cittadini convinti che le migliori opportunità di crescita per il nostro Paese sono legate a variabili quali la creatività dei giovani, il riconoscimento del merito, l’abbattimento del digital divide, il rinnovamento dello Stato attraverso l’Open Government. L’Associazione, presieduta da Flavia Marzano, opera in ambito regionale, nazionale, internazionale ed è aperta al contributo di persone di tutte le nazionalità e di qualsiasi estrazione sociale, economica e politica che ne condividano i principi. Gli Stati Generali dell’Innovazione si pongono gli obiettivi di: costruire un punto di riferimento per le associazioni, le organizzazioni e i singoli impegnati sul fronte dell’innovazione, sia dal punto di vista sociale, sia industriale, che dell’impatto sulla trasformazione della PA e infine delle condizioni tecniche di base; definire un percorso per organizzare ‘dal basso’ e sul territorio gli Stati Generali dell’Innovazione, attraverso l’utilizzo di una piattaforma di condivisione in rete, incontri tematici, riunioni, studi, pubblicazioni, seminari; elaborare in modo condiviso e attraverso un processo inclusivo un programma per “l’innovazione nel governo dell’Italia”, come risultato complessivo degli Stati Generali dell’Innovazione.

Anche Italiacamp è una rete per l’innovazione che opera attraverso studi, ricerche, incontri, attività sul territorio, seminari, pubblicazioni. Italiacamp è un network che collega oltre 70 università italiane con aziende e istituzioni pubbliche e private, al fine di collegare domanda e offerta di innovazione. Questa Associazione delinea il paradigma dell’innovazione sociale come paradigma autonomo rispetto alla visione tradizionale che vede la tecnologia quale principale driver dell’innovazione. In particolare, nella prospettiva dei ricercatori impegnati in questa associazione, sono tre i driver fondamentali dell’innovazione sociale: i processi di co-creazione rivolti a clienti e user; i network collaborativi, ossia reti di relazioni tra diversi individui, associazioni e territori; i fabbisogni dell’innovazione, esigenze e fabbisogni sociali che emergono dalle global challenge, riscontrabili nel settore pubblico, più che nei mercati e nelle nuove tecnologie.

L’AICA – Associazione Italiana per il Calcolo Automatico – è nata nel 1961 ed ha come finalità lo sviluppo delle conoscenze informatiche in tutti i suoi aspetti scientifici, applicativi, economici e sociali. Grazie alle sue iniziative, alla sua autonomia ed al suo radicamento internazionale essa rappresenta: il crocevia tra i principali attori del mondo dell’ICT come università, centri di ricerca, operatori del settore e istituzioni; il luogo di confronto aperto sui temi rilevanti della società digitale quali le prospettive professionali e occupazionali, l’efficienza dei servizi al cittadino, la diffusione delle conoscenze ICT nella popolazione; il riferimento per la definizione, valorizzazione e diffusione degli eSkill.

AICA ha moltissimi filoni di attività tra i quali: la pubblicazione della rivista Mondo Digitale; l’organizzazione in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca delle Olimpiadi di Informatica rivolte a giovani studenti; diverse iniziative per la scuola e l’università; l’orientamento formativo e professionale degli specialisti grazie al Cantiere dei Mestieri ICT. Infine AICA è responsabile per l’Italia di programmi internazionali per la certificazione delle competenze informatiche: e-Citizen per la cittadinanza digitale; ECDL la Patente Europea del Computer per lo sviluppo delle competenze a diversi livelli; l’EUCIP per la certificazione delle competenze dei professionisti di informatica secondo standard europei.

La Rete delle Università Italiane per l’Apprendimento Permanente si è costituita formalmente presso l’Università di Genova il 16 novembre 2011. La RUIAP aderisce alla Rete delle università europee EUCEN per lo sviluppo del Lifelong Learning e raccoglie al suo interno più di trenta università italiane ed alcune istituzioni per lo sviluppo della formazione. Il suo obiettivo è promuovere lo sviluppo dell’apprendimento permanente quale contributo alla società della conoscenza ed alla crescita del sistema economico e sociale del Paese. All’interno di una prospettiva più generale, volta all’innovazione dei sistemi formativi ed al rafforzamento dei rapporti tra formazione e contesto socio-economico, la Rete RUIAP nasce dal riconoscimento della conoscenza quale forza competitiva e propulsiva della società contemporanea e tende a sottolineare il valore della formazione e dell’apprendimento lifelong quali strumenti capaci di favorire la crescita degli individui e di limitarne, al tempo stesso, il rischio di esclusione dalla società e dal mercato del lavoro.

E’ possibile rilevare una sottile e profonda affinità tra l’esperienza condotta dall’Associazione RUIAP, presieduta da Aureliana Alberici, e la Fondazione MondoDigitale, presieduta da Alfonso Molina. Seppur riferita a diversi contesti, egualmente simile è la filosofia che anima e guida l’impegno delle due associazioni. Da un lato, la RUIAP promuove la conoscenza e l’apprendimento permanente soprattutto nelle università, dall’altro, la Fondazione MondoDigitale promuove la conoscenza ed il sapere nelle città, nelle carceri, nei centri di accoglienza rivolgendosi a giovani ed anziani. Ambedue le associazioni sono impegnate per il raggiungimento di una società della conoscenza inclusiva e soprattutto vedono nella crescita della conoscenza una chiave di accesso alla cittadinanza sostanziale.
La Fondazione MondoDigitale – FMD – è stata creata nel 2001 dal Comune di Roma. La FMD lavora per una società della conoscenza inclusiva coniugando innovazione, istruzione e valori fondamentali. La missione della FMD è quella di promuovere l’innovazione e l’inclusione con particolare attenzione alle categorie a rischio di esclusione: anziani, immigrati, giovani disoccupati, studenti con bisogni speciali, ecc. La FMD rivolge i suoi corsi anche agli analfabeti e garantisce la certificazione delle competenze acquisite. La caratteristica essenziale di questa Fondazione è legata al fatto che essa non propone degli interventi specifici e circoscritti per la formazione dei gruppi svantaggiati alle competenze digitali, ma agisce all’interno di una prospettiva sistemica volta alla realizzazione di una società della conoscenza inclusiva. Le attività formative di Mondodigitale riguardano infatti cinque macro aree di intervento, che insistono sulle maggiori criticità del sistema Paese e cercano di rispondere alle sfide di Europa 2020. Un aspetto strategico dell’azione della FMD è la “phirtualità”, cioè l’integrazione della dimensione fisica con quella virtuale in tutti i processi di intervento e di formazione promossi.
Molte esperienze tra quelle incluse nella rete riguardano l’integrazione, anche attraverso gli stumenti della digitalizzazione, di gruppi della popolazione a maggior rischio di esclusione. Cosi la Caritas impegnata a sostenere, anche gli immigrati, attraverso percorsi di accesso al mondo del lavoro e di formazione: formazione che riguarda anche l’acquisizione di competenze digitali. E’ altresì significativo citare Informatici senza frontiere – ISF -: una ONLUS, nata nel 2005, con l’obiettivo di utilizzare le conoscenze e gli strumenti informatici per portare un aiuto concreto a chi vive situazioni di emarginazione e difficoltà. Tra i progetti realizzati da ISF nel mondo è importante ricordare: l’Open Hospital, un software open source per la gestione di ospedali, ambulatori e centri medici attualmente utilizzato nei Paesi in via di sviluppo, come l’Africa Sub-Sahariana, ed in Italia per la gestione del CESIM – Centro Salute Immigrati di Verona; interventi in situazioni di emergenza che vedono i volontari di ISF intervenire in caso di terremoti per il ripristino dei sistemi di comunicazione e di informazione; consulenza organizzativo-informatica a università, ONG, associazioni, ospedali che necessitino di tale consulenza per la realizzazione dei loro progetti.

All’interno di una diversa prospettiva ma animato da una stessa flosofia, il modello dell’Accessibilità dell’elearning, proposto da Eleonora Guglielman, afferma il potenziale dell’e-learning come metodologia formativa in grado di raggiungere e coinvolgere i discenti che, a causa della loro disabilità, sono a rischio di esclusione dalle tradizionali attività formative in presenza. L’e-learning può costituire per le persone con disabilità un efficace approccio educativo in grado di far acquisire capacità di autodeterminazione e di empowerment grazie al superamento dei vincoli spazio-temporali, la flessibilità, l’interattività, l’individualizzazione e la personalizzazione dei percorsi. Nella società dell’informazione l’accesso equo alle tecnologie da parte di tutti gli utenti, compresi quelli che presentano problemi di disabilità, è considerato una priorità e un fattore chiave per l’esercizio della cittadinanza attiva.

Il Portlet presenta diverse esperienze di lotta alla povertà ed all’esclusione sociale grazie alla concessione di microcrediti, ad esempio da parte della Regione Lazio o dell’Ente Nazionale per il Microcredito – ENM – alle famiglie, ai giovani, alle persone in difficoltà. All’interno di una prospettiva generale, lo scopo è quello di consentire alle  persone di ottenere in prestito piccole somme di danaro da utilizzare per sanare una situazione economica negativa della loro impresa, per creare un nuovo percorso autoimprenditoriale, per affrontare spese impreviste, per migliorare le proprie condizioni di vita o quelle della propria famiglia. L’ENM concede in particolare microcrediti nelle regioni dell’Obiettivo Convergenza e soprattutto ai giovani per la realizzazione di piccoli progetti imprenditoriali.

Egualmente significative sono le esperienze di concessione delle terre ai giovani da parte di molte regioni italiane come il Lazio, la Campania, la Toscana, la Puglia e l’Abruzzo. E’ significativo notare, rispetto a questo tipo di iniziativa, come anch’essa tenda a coniugare il passato contadino con il futuro digitale nella misura in cui la coltivazione della terra si associa a modelli di coltivazione ecosostenibili, alle pratiche dell’e-commerce per la diffusione e la vendita dei prodotti ottenuti dalla terra.

La rete Isfol su “Innovazione e inclusione sociale” propone diverse esperienze in cui l’inclusione si realizza attraverso la socialità, la partecipazione e lo sport. Tra queste esperienze, si ricorda il Contact Center SuperAbile Inail che promuove importanti attività di formazione, accesso al lavoro, ma anche esperienze sportive di grande significato come le Paraolimpiadi.

Un’esperienza di grande significato anche dal punto di vista sociologico è quella promossa a Roma, nel quartiere Corviale, dall’Associazione per il “Calciosociale”. “Questa esperienza fa del calcio uno strumento per l’integrazione sociale, un progetto per la ‘rinascita’ di un quartiere segnato negli anni ed in senso fortemente negativo dalla presenza del ‘Serpentone’. Il Serpentone è un edificio-quartiere realizzato dal  1975 al 1982. E’ formato da due palazzi posti uno di fronte all’altro lunghi circa un Km (980m), composti da 9 piani d’altezza e da altri due edifici più piccoli. Il Serpentone comprende 1.200 appartamenti. Il quarto piano avrebbe dovuto ospitare i negozi ed i servizi quali l’asilo nido, l’ufficio postale, ecc. In realtà ha finito per diventare il piano degli abusivi in cui vivono circa 150 famiglie” (Ofantino, 2014).

L’Associazione per il Calciosociale è nata nel 2006 dall’iniziativa di alcuni giovani del quartiere. L’associazione, presieduta da Massimo Vallati, ha inteso sperimentare un modello educativo per gli abitanti del quartiere attraverso il gioco del calcio. Il 13 luglio 2009 Calciosociale è entrata in possesso di una struttura in stato di totale abbandono situata proprio di fronte al Serpentone. Questa struttura è diventata il “Campo dei Miracoli”. Nel maggio 2014 si è inaugurato il primo centro di Calciosociale al mondo, un luogo di integrazione sociale attraverso lo sport e architettura ecosostenibile.

Il Campo dei miracoli oppone il suo colore rosso al grigio del quartiere, il materiale ecocompatibile ed ecologico con cui è realizzato al cemento armato con cui il serpentone è stato costruito, il verde degli alberi al grigio del palazzo situato proprio di fronte. L’impegno essenziale di Calciosociale è prendersi cura del Quartiere Corviale e delle persone che lo abitano fornendo uno strumento educativo capace di inserirsi in un tessuto sociale così complesso “Il campo dei miracoli” rappresenta un importante luogo d’incontro a Corviale, accessibile a tutti quelli che ne hanno bisogno, per poter raggiungere un obiettivo tanto ambizioso quanto necessario e possibile: la riqualificazione del quartiere.
Calciosociale utilizza una particolare metodologia sportiva, consona ai principi della peer education, grazie alla quale sul campo non giocano i migliori sportivi ma persone di diverso sesso, di diversa età e con diverse capacità psicofisiche. Calciosociale ha reinterpretato le usuali regole sportive, trasformando e valorizzando la potenzialità educativa dello sport. Ogni iniziativa promossa dal Calciosociale ha uno scopo prettamente pedagogico, di alto spessore qualitativo e dal valore psico-terapeutico, con l’obiettivo di porre l’attenzione sulle capacità, e non sugli handicap presenti nei soggetti considerati difficili. Inoltre l’attività sportiva diventa l’anticamera per la promozione di eventi culturali e ‘spirituali’, capaci di rimettere in movimento la coscienza collettiva. Calciosociale è basata infatti sull’obiettivo statutario di organizzare attività inclusive ed accoglienti per ragazzi con problemi psico-fisico-motori, vittime di disagio economico, emarginazione sociale, tossicodipendenza o violenza intrafamiliare.

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