Sistemi sociali, organizzazioni complesse e il principio “responsabilità”: alla ricerca di un nuovo modello di sviluppo. La questione (cruciale) della sostenibilità.

«…il carattere della sostenibilità implica la restituzione di parte del valore prodotto: a un territorio, alla comunità in cui si vive, alle future generazioni. In fondo, la sostenibilità altro non è che la risposta alla domanda: “Di chi è il valore prodotto?”. In un circolo che ricostituisce i legami sociali e rinnova una legatura di natura debitoria mai estinguibile e, per questo, paradossalmente liberante. Il principio di sostenibilità richiede l’adozione dei un orizzonte temporale non schiacciato sul breve periodo, capace di andare al di là del puro sfruttamento e della mera speculazione» (M.Magatti, C.Giaccardi, 2014)

“Ma, alla base del nostro lavoro…anche un altro intimo convincimento: che la comunicazione etica e la conoscenza diffusa (open), a livello locale e globale, rappresentino realmente i pre-requisiti fondamentali per la realizzazione del “progetto” … di una società globale più equa, inclusiva e solidale, che ponga nuovamente alla sua base i “valori” dell’essere umano (neoumanesimo) e i diritti di cittadinanza globale” (P.Dominici, 2003)

 

Non possiamo non rilevare come l’attenzione dedicata, non soltanto in termini di copertura mediatica, alle tematiche dell’etica e della responsabilità in tutti i campi della vita privata e pubblica, sia notevolmente cresciuta negli ultimi anni; anche se, non soltanto con riferimento al terreno scivoloso della Politica e dell’etica pubblica, appare evidente in tutta la sua radicalità, la questione della coerenza dei comportamenti, a livello individuale e collettivo. A ciò si aggiunga che, a dire il vero, si ha ancora l’impressione che ci sia una sorta di ritardo culturale su tali questioni e che, spesso, termini come etica, responsabilità, trasparenza, cittadinanza, responsabilità sociale, sostenibilità, sviluppo sostenibile vengano utilizzati soprattutto come “etichette” funzionali alla costruzione di una buona immagine (a livello di singole persone e di organizzazioni complesse) e/o di una efficace propaganda politica… Allo stesso tempo, tuttavia, non possiamo non considerare anche i “segnali” incoraggianti provenienti, pur con una certa lentezza, dal mondo delle imprese (anche se la strada è ancora lunga, essendo il problema “culturale”, cioè di lungo periodo) e dalla cosiddetta società civile; in particolar modo, da quel mondo dell’associazionismo e del non profit, la cui evoluzione costituisce – come argomentato in un precedente post – un prezioso indicatore di cittadinanza attiva, inclusiva e partecipata, oltre ad incidere in maniera significativa sulla variabile complessa “capitale sociale”. Per ciò che concerne, nello specifico, il concetto di sostenibilità – come noto – esso è stato introdotto e tematizzato durante la I Conferenza ONU sull’ambiente nel 1972, anche se bisognerà attendere il 1987, con il Rapporto Brundtland, perché venga riconosciuto come strategico l’obiettivo dello sviluppo sostenibile – definito come uno sviluppo in grado di assicurare «il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri» – che, di fatto, si configura da quel momento come il paradigma dello sviluppo. Successivamente, assumono progressivamente sempre più significatività concetti come resilienza, autoregolazione, autopoiesi, vulnerabilità, perturbazione, alterazioni, equilibrio (->sistemi antropici e sistemi ecologici), ecosistema; e si prende coscienza dell’urgenza di un approccio sistemico alla complessità e della razionalità limitata che caratterizza i sistemi stessi (1998-2000-2003).

Categorie concettuali ed un lessico che – come già scritto in passato – definiscono il quadro teorico ed operativo riguardante questa nuova complessità che spinge le organizzazioni a governare l’incerto attraverso la condivisione di una cultura organizzativa e progettuale. Il sistema capitalistico delle reti si rivela, dunque, una Knowledge-based economy che determina una trasformazione irreversibile della conoscenza in conoscenza sociale, in grado di produrre ed elaborare un “sapere condiviso”(2003) costantemente riutilizzabile, che oltrepassa i vincoli della conoscenza proprietaria esclusiva, introducendo numerose discontinuità e asimmetrie. Protagonista assoluta della nuova economia della conoscenza diventa la produzione orizzontale (1998).

Contemporaneamente, il riconoscimento del valore della trasparenza – intorno al quale spesso si fa tanta retorica (ancora una volta, contano i comportamenti) – spinge le organizzazioni complesse a configurarsi concretamente come “sistemi aperti” (agli stakeholders, al territorio e alla Comunità) fondati sul presupposto della condivisione della conoscenza, decisivo per gestire al meglio l’incertezza: una complessità sempre legata – vogliamo ribadirlo con forza – ad una carenza o, comunque, ad una cattiva gestione della conoscenza. In tal senso, occorre partire proprio dalla consapevolezza che la struttura dell’economia della conoscenza (Dominici 2003) si basa proprio sulla condivisione di questa straordinaria risorsa immateriale; condivisione che, contrariamente alle tradizionali logiche di controllo e accesso tipiche del vecchio modello industriale, costituisce il pre-requisito fondamentale alla base della stessa possibilità di produzione/elaborazione della conoscenza ->in tal senso, fondamentale e ricca di stimoli, la filosofia dell’open source. Anche se – come più volte ribadito nelle nostre analisi e riflessioni – resta aperta la questione delle competenze che continuerà ad essere sempre strategica: e se non si interverrà concretamente, il termine “inclusione digitale” sarà l’ennesimo slogan di quel nuovismo acritico che interpreta il complesso mutamento in chiave riduzionistica e deterministica.

Lo ripropongo volentieri – Citate sempre le fonti, grazie e buona lettura

 

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